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“Tremonti e il decreto «affossa università»”, di Pietro Greco

Tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università di 1 miliardo e 443 milioni da qui al 2013. Sostanziale blocco del turn-over: per ogni 10 docenti in uscita solo 2 potranno essere sostituiti. Possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Per la CRUI, la Conferenza dei rettori delle università italiane, non c’è dubbio: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale».

La manovra che si accinge a realizzare la più radicale riforma dell’università mai effettuata nel nostro Paese e a rivoltare come un calzino il sistema italiano dell’alta educazione è il decreto-legge n. 112 elaborato dal Ministro dell’economia Giulio Tremonti e approvato il 25 giugno 2008 nel famoso Consiglio dei Ministri durato 9 minuti.
Il decreto di Tremonti potrebbe essere ribattezzato «affossa università pubblica» per almeno tre diverse considerazioni. La prima riguarda, appunto, il taglio al Fondo di finanziamento ordinario con cui lo Stato trasferisce i soldi alle università. Questo Fondo ammonta a circa 7 miliardi di euro. Esso serve, per oltre l’88%, a coprire le spese di personale. Il decreto prevede tagli progressivi a questo Fondo di: 63,582 milioni nel 2009; 190,727 nel 2010; 316,622 nel 2011; 417,077 nel 2012; 455,240 nel 2013. Per un totale di 1,443 miliardi in cinque anni.

Il combinato disposto dei tagli e degli aumenti automatici delle spese per gli stipendi del personale (scatti di anzianità previsti dalla legge) farà sì che già nel 2009 oltre il 90% del Fondo di finanziamento ordinario sarà assorbito dalle spese per il personale e che, nel 2013, si andrà oltre il 100%. In altri termini le università non avranno garantiti i soldi per pagare la bolletta della luce e del riscaldamento o per comprare la carta delle fotocopie. Sarà il collasso. Evitabile in un’unica maniera: acquisire fondi privati. O, in maniera improbabile, dalle imprese: che come si sa non hanno in Italia alcuna vocazione alla ricerca e alla formazione. O, come è più probabile, aumentando la retta di iscrizione degli studenti e accelerando l’espulsione dalle università dei giovani appartenenti a famiglie più povere.

Il secondo elemento è il sostanziale blocco del turn-over. Per ogni 10 docenti che andranno in pensione da qui al 2011 (e saranno tanti, vista la loro età media molto elevata), solo 2 potranno essere sostituiti. A partire dal 2012, le sostituzioni possibili saliranno al 50%: uno su due. La piccola università di Udine ha fatto una simulazione. Da qui al 2013, andranno in pensione in quell’ateneo 57 unità di personale. Potranno essere sostituite solo da 13 persone.

Meno docenti con minori dotazioni: la qualità dell’offerta didattica nelle università pubbliche italiane è destinata, dunque, a peggiorare. Non è una bella notizia. Anche perché gli investimenti che il nostro paese riserva all’alta educazione già oggi non superano lo 0,88% del Pil: e sono, dunque, un terzo in meno rispetto alla media europea, due terzi in meno rispetto al sistema universitario americano. In questo momento anche la Germania e la Francia stanno rivedendo la loro politica universitaria. Le riforme sono diverse. Ma entrambi aumentano i fondi.

Ma il decreto di Tremonti contiene un ulteriore passaggio. Si dice che le università italiane – se vogliono – potranno trasformarsi in fondazioni di diritto privato. L’idea è chiara. Lo Stato si ritira progressivamente dal settore dell’alta educazione e lascia le università italiane libere di attingere sul mercato i fondi di cui hanno bisogno. Insomma, come rileva il rettore di Udine, il decreto-legge è un frettoloso tentativo di privatizzare il sistema universitario italiano. Il completo ribaltamento di un modello – quello dell’università pubblica – che da almeno un paio di secoli caratterizza l’alta educazione in Italia e in Europa.

Sorprendono tre cose, in questa frettolosa operazione.
Primo: che la riforma universitaria avvenga per volontà del Ministro dell’Economia e senza una parola da parte del Ministro dell’Istruzione.
Secondo: che avvenga in maniera nascosta, senza un’ampia e approfondita discussione in Parlamento.
Terzo: che l’opinione pubblica non se ne curi affatto. Solo i rettori si sono mobilitati. E solo il Presidente Giorgio Napolitano nei giorni scorsi ha espresso il suo «vivo interesse per le questioni e per le idee» che gli sono state illustrate da una delegazione di scienziati dell’Osservatorio della Ricerca. Il resto d’Italia è ignaro o si comporta come se lo fosse.

Segno che il nostro paese non ha ancora acquisito piena consapevolezza né del proprio declino né, tanto meno, della cause che lo hanno scatenato.

L’Unità, 14 luglio 2008

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