Nel 1538 si festeggiava a Città del Messico la pace nella lontana Europa tra Carlo V e Francesco I. Racconta il cronista Bernal Diaz Castillo che all’occasione – nella piazza dove sorgeva il Templo Mayor e dove si stava innalzando al suo fianco la cattedrale – venne allestito uno strano spettacolo. Furono portati migliaia d’alberi, per simulare una selva, immediatamente popolata da villosi selvaggi. Questo ambiente avrebbe dovuto rappresentare il nuovo regno conquistato appena quindici anni prima. Colpisce e meraviglia una doppia incongruità: che nella metropoli circondata (secondo la testimonianza di Cortéz) da quaranta torri alte quasi cento metri, come la Giralda di Siviglia, nel centro di un tessuto urbano monumentale impressionante, si riducessero gli Indios a selvaggi. Ma fa specie, soprattutto, che uomini dal corpo glabro e liscio venissero travestiti ricoprendoli di pellicce. Come era possibile che la realtà venisse alterata sino al punto di negare l’evidenza percettiva? Perché si proiettavano su una nuova esperienza vecchi schemi e pregiudizi, non solo attribuendo il monopolio della civiltà ai conquistatori, ma rappresentando i presunti selvaggi secondo il modello dell’anacoreta villoso – come Sant’Onofrio – che si faceva crescere i capelli nel deserto? La cecità nei confronti delle altre culture è in questo caso evidente ed è mossa dal desiderio e dalla volontà di abbassare gli altri a un livello di primitività che rasenta la vita animale e, nello stesso tempo, di esorcizzare la paura nei loro confronti. Da tempo immemorabile tutte le comunità umane cercano di mantenere la loro coesione nello spazio e nel tempo mediante la separazione dei propri componenti dagli “altri”. Più una società è debole e insicura, più la formazione del “noi” esige rigorosi meccanismi d’esclusione e, generalmente, d’attribuzione al noi di un qualche primato, reale e immaginario, e, per converso, di degradazione, sospetto e timore riguardo all’altro, al diverso. Eppure, per non soffocare nel proprio isolamento, ogni comunità (specie se evoluta) prevede meccanismi opposti e complementari di inclusione degli altri. In ciascuna permane comunque una costitutiva ambiguità, che può venire efficacemente illustrata a partire da una etimologia. Nel Vocabolario delle istituzioni indoeuropee Émile Benveniste ha mostrato come la parola latina hostis indichi simultaneamente l'”ospite” e il “nemico”, uniti dalla comune relazione di scambio e di reciprocità: il primo scambia, in positivo, dei doni; il secondo, in negativo, la morte. Lo straniero è così, contemporaneamente, un ponte verso l’alterità e una minaccia per la compattezza della popolazione, un antidoto alla sterile chiusura in se stessi e un condensato di paure. L’incertezza del vivere deriva oggi, appunto, dalla percezione diffusa che lo straniero costituisce un potenziale nemico piuttosto che un possibile ospite (oltre che una persona che, con il suo lavoro, contribuisce spesso al nostro benessere). Se paura e speranza, nella loro polarità, sono entrambe alimentate dal bisogno di sfuggire ai pericoli del presente e all’incertezza del futuro, viene da chiedersi se non vi sia una proporzione inversa tra il diminuire della speranza in un futuro migliore e la crescita di angosce plurime o senza nome che si catalizzano sullo straniero. I problemi suscitati dall’inserzione impetuosa in altri contesti di milioni di persone di cultura diversa, spinte a emigrare dalla povertà o dalle guerre, certamente non mancano. Pericolosa è tuttavia la generalizzazione di casi singoli (anche se frequenti), il confondere gli individui con un gruppo etnico o religioso o il proiettare su di loro stereotipi o formule ideologiche di comodo. In un mondo che si restringe e le cui parti divengono interdipendenti non c’è oggi alcuna sensata alternativa all’integrazione, la quale non coincide né con l’assimilazione, né con la creazione di ghetti (e neppure con il cosiddetto buonismo, un alibi per non assumere concrete responsabilità, o con la xenofobia, un acido che corrode la civile convivenza). L’integrazione rappresenta piuttosto un lungo e paziente processo di annodamento delle differenze all’interno di un tessuto sociale che le renda non solo compatibili, ma, in prospettiva, feconde. La direzione della paura è storicamente cambiata. Nel passato, anche recente, era soprattutto il potere statale a incuterla. Nella filosofia politica veniva messa alla base dei regimi dispotici: dal phobos, attribuito dai Greci agli Orientali, i cui sovrani trattano i sudditi come schiavi, sino alla crainte che Montesquieu riscontrava al suo tempo dominante nell’Impero Ottomano o in Persia (con l’aiuto della tecnica i totalitarismi del Novecento l’hanno poi resa onnipresente). In maniera più realistica, Hobbes la considerava invece caratteristica imprescindibile di ogni Stato, allorché viene esercitata sia nell’ambito della legge o dell’arbitrio sovrano, sia in quello dell’anarchia, dove si trasforma in terrore o in panico. Secondo un detto anglosassone, un Paese è democratico quando chi viene alla vostra porta di primo mattino è il lattaio e non la polizia politica. Tale regime è quindi definito dell’assenza o della riduzione della paura, che si manifesta anche nel privilegio accordato all’accettazione del diverso rispetto alla sua espulsione. Le democrazie sviluppano così i semi gettati dal cristianesimo. L’episodio evangelico del Buon Samaritano mostra, intatti, come si venga talvolta aiutati più dagli stranieri che dai propri concittadini. In questo senso, il cristianesimo rappresenta il tentativo più elaborato di abbattere le barriere etniche e statali che separano il “noi” dagli “altri”, il cittadino dallo straniero (il cristiano, del resto, si considera peregrinus, “straniero” a questo mondo e “pellegrino” o viandante di passaggio in esso). Ma che succede se chi vi entra in casa non è né il lattaio, né il poliziotto, ma un rapinatore che, oltre a impossessarsi dei vostri beni, attenta anche alla vostra vita? Se vostra figlia viene stuprata a una fermata della metropolitana? La paura non viene allora più percepita come proveniente dal potere statale, ma, al contrario, da una criminalità che le “forze dell’ordine” stentano a contrastare. L’insicurezza rende gli individui e l’opinione pubblica meno razionali, creando uno stato d’animo di allerta o di psicosi collettiva, che fa di ogni erba un fascio, non tiene conto delle esperienze analoghe nel passato e crea dei capri espiatori. È evidente che se l’esistenza delle persone fosse resa meno precaria, meno esposta agli imprevisti, la loro tendenza a comportamenti ragionevoli si rafforzerebbe spontaneamente. La sicurezza è dunque indispensabile per restringere l’area della paura. Ma quale sicurezza? Quali misure prendere per evitare una militarizzazione della società, una sua chiusura che la esponga a una sorta di malattia del ricambio, che semini il sospetto, che si pieghi a strumentalizzazioni politiche e che delegittimi l’accoglienza dell’altro, vedendovi solo un potenziale nemico?
Il Sole 24 Ore 25.5.2008
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