PERCHÉ L’ITALIA VA A DESTRA Parla lo storico della filosofia impegnato in questi giorni al Seminario della «Fondazione Italiani Europei» su «Religione e democrazia». «L’irruzione delle Chiese in politica? Nasce dalle falle della politica laica»
«L’irruzione della religione in politica nasce dalle debolezze della politica democratica, dopo il crollo delle ideologie e delle filosofie del progresso. Ma è tempo di ricominciare a elaborare un’identità laica. A fondamento della democrazia e del nesso religione/politica». Giudizio problematico nel metodo, ma netto nella sostanza quello di Remo Bodei
Il filosofo migrato negli Usa all’Ucla di Los Angeles, studioso dei Destini personali (Feltrinelli), del soggetto e delle «forme di coscienza» punta al cuore di una questione politica centrale: l’identità del Pd dopo la sconfitta elettorale. In sintesi per Bodei – in questi giorni a Marina di Camerota al Seminario della Fondazione ItalianiEuropei che si chiude oggi con Todorov, Larmore e Massimo D’Alema – ci vuole un «lavoro gramsciano di lunga durata». Per ridefinire laicamente il nesso «Religione – democrazia». E dare smalto e baricentro al Partito democratico. Contro il populismo montante e possibili stravolgimenti materiali e formali della Costituzione. E a conti fatti quella di Bodei è anche una risposta alla domanda: perché l’Italia va a destra?
Bodei, da sinistra a destra in molti affermano che la politica laica è carente di «fondazione». Di qui il bisogno di una legittimazione religiosa. Davvero le cose stanno così?
«No, la politica non ha bisogno di fondamenti religiosi. Ma è certo carente. Perché le basi sulle quali si fondava si stanno erodendo. L’età moderna poggiava sul primato della coscienza critica individuale e sul progetto di controllare la storia. Le due dimensioni sono entrate in crisi con il crollo dei totalitarismi e l’ottundimento dell’autonomia intellettuale del singolo. Lo spessore di senso della politica si assottiglia e nel varco passa il protagonismo delle Chiese».
Ne deriva la necessità di rilanciare la politica laica, magari su basi più ampie e inclusive?
«Sì, recuperando a pieno la dimensione civile democratica. Il diritto della religione a intervenire nello spazio pubblico non è in discussione. Né lo è mai stato nell’Italia democratica. Il punto è l’invadenza di quello spazio, decisivo per consentire il confronto fra le molteplici posizioni, religiose e non. Per cui la religione “stampella” diviene prescrittiva e fondante della legislazione civile. Aggiungo che l’accusa di relativismo, a giustificazione di ciò, non regge. Poiché la democrazia si sottrae a quel relativismo, con il criterio della compatibilità di tutti i valori. Ne consegue che l’invadenza religiosa, con la sua pretesa di monopolio, spezza il principio di eguaglianza a garanzia del pari diritto di tutti i valori. Le conseguenze sono letali, se si pensa che la democrazia moderna nasce proprio dal superamento delle guerre di religione, con il bagno di sangue che le accompagnò. Insomma, lo spazio pubblico democratico è irrinuniabile. E non ha mai represso la religione. Dire che essa è oggi ristretta ad una dimensione privata, del silenzio, è falso».
Benedetto XVI afferma che negli Usa lo spazio pubblico è fatto a misura delle confessioni religiose e solo in tal senso è «plurale».
«Non è del tutto così, e in ogni caso bisogna storicizzare. Gli Usa nascono con l’arrivo dei Padri pellegrini che hanno sempre rifiutato l’interferenza religiosa dello stato sulla loro religione e le altre sette. In Europa è stato il contrario: lo stato si è voluto premunire dalla religione, arginandola con Cavour».
Europa laica, e Usa terra di pluralismi fondamentalisti?
«Non necessariamente, e poi il termine “fondamentalisti” nasce proprio negli Usa. L’America è certo un luogo in cui la religione ha intriso la politica fin dall’inizio. Basta vedere i richiami religiosi presenti in Bush Jr e in Obama. In questo senso gli Usa sono meno laici non dell’Europa, bensì della Turchia, dove bene o male Ataturk distinse con forza religione e stato. Certo, le regole laiche ci sono eccome in America, ma nessun politico europeo direbbe che quando è triste “piange sulla spalla di Dio” come Bush. O che lo “spirito divino” lo ha spinto a candidarsi, come Obama. Possono sembrare cose innocue, ma non dimentichiamo che quello Usa è anche un Dio degli eserciti, e che la democrazia lì ha una dimensione imperiale, espansiva, pur essendo mite su tante cose, all’interno».
Jefferson parlava di muro tra religione e stato, ma i vari stati decidono se il darwinismo è lecito a scuola. È così?
«Certo, in Alabama Darwin è fuorilegge. Il che non vuol dire che l’America sia illiberale. Sarà banale ripeterlo: gli Usa sono complicatissimi, conflittuali. Ma è il lievito della libertà a muovere questo paese. Come diceva già Tocqueville, stupito dinanzi alla prima democrazia moderna».
Ma quali sono i limiti del «ruolo pubblico della religione», per usare il «lessico» del Pd?
«Il limite è la non subalternità della politica dinanzi alla religione e ai suoi dettati. La politica deve rivendicare a pieno la sua autonomia. Sapendo però che la religione è entrata nelle linee di frattura lasciate aperte dalla politica laica. Confine dunque precario, e problema non di immediata soluzione: ci vorrà tempo. Perché certe svolte culturali hanno lasciato il segno. E non siamo più in grado di garantire alle grandi masse controllo degli eventi e progresso sicuro. La salvaguardia dalle grandi paure, e dalla desertificazione dei significati etici e politici, svanito il sogno di una società senza classi. Perciò c’è un lavoro enorme da fare: riformulare la libertà, l’emancipazione e la sicurezza in senso ampio. In un mondo globale e senza garanzie. Ma al momento, se la religione assume un nuovo ruolo, la colpa è proprio della politica secolare».
Dobbiamo dunque accettare l’irruzione della religione come una sfida in positivo?
«Sì, come sfida a capire le paure e le aspettative nel mondo mutato. Che cosa comporta la perdita del futuro nell’immaginario? E perché in tutto questo esplodono le radici religiose? Ciò che però è profondamente sbagliato è l’attegiamento “mimetico” a sinistra. Si è pensato di diventare più moderni appiattendosi sulle ragioni degli altri. Errore letale, perché come insegna anche la pubblicità, la copia di un prodotto originale è sempre perdente».
Non sarà il caso, pensando al Pd, di ricostruire una comunità politica a identità più definita e salda e meno ibridata?
«Certamente. Ma dobbiamo renderci conto che sarà una lunga guerra di posizione, per usare un concetto gramsciano. Non ci si ridefinisce dall’oggi al domani. E uno dei temi centrali mi pare quello dell’eguaglianza, da rilanciare e ripensare all’altezza dei diritti. Tema oltretutto di origini cristiane… Prenda la questione dei clandestini. Lì la Chiesa è molto più accogliente, mentre la sinistra a volte è incerta. Eppure accade qualcosa di grave: una condizione debole, diviene reato. È il frutto di una lunga caduta, in cui la fine della “storia lineare” ha trascinato con sé anche l’eguaglianza. Senza dubbio questo valore non va propugnato in chiave barricadera, bensì pragmatica. Il laicismo infatti non esclude che si possa apprendere anche dalla religione. E tuttavia declina l’eguaglianza in chiave di libertà di tutti, e non dogmatica. Oggi ci vorrebbe un disarmo bilaterale tra laici e credenti. Una tregua, in cui ciascuno accetti di ripensarsi, prima di potere ridelineare confini e differenze»
Restiamo al Pd. Le pare sufficientemente attrezzato per questo lavoro di lunga lena a caccia di un baricentro culturale?
«Vista dagli Usa, dove mi trovavo in questi mesi, la scelta di correre da soli, mi è sembrata un modo di non restare sepolti sotto le macerie del governo Prodi. Ciò detto, la visione dei blocchi contrapposti e dell’alternanza, spinge di fatto a condensare l’eterogeneità. Soltanto che a destra c’è una compattezza identitaria maggiore, sulla sicurezza e sugli interessi proprietari. Nel nostro campo è più difficile. E coesistono nel Pd “teodem” e il loro contrario. Essenziale comunque è mantenere il principio della laicità. Per far convivere i diversi, rilanciando l’agenda democratica. Contro il populismo ad esempio, e contro il tentativo di mutare o stravolgere la costituzione materiale e formale della Repubblica. Magari finendo con il legittimare e premiare l’avversario con nuove intese bicamerali».
L’Unità 25.05.08