Una premessa veloce: durante la fragilissima legislatura che ha visto Prodi fare i salti mortali per andare avanti, abbiamo toccato il fondo. I dati di gradimento della Sinistra erano bassissimi. Al momento della crisi la differenza tra noi e la destra era di ben 22 punti. Senza il Pd sarebbe stata una catastrofe di proporzioni inimmaginabili. Invece adesso abbiamo un solido trampolino per ripartire con slancio.
Preciso che non parlerò di questioni strettamente politiche ed economiche, perché altri possono farlo meglio di me. Dirò qualcosa che riguarda la comunicazione, a mio parere centrale, oggi più che mai, nella ricerca del consenso. E occuparsi della comunicazione significa tentare di inquadrare la nuova realtà sociale senza pregiudizi. Comunicare significa ascoltare e rispondere, e un dialogo funziona solo se si parla la stessa lingua. Quindi non si tratta di un approccio riduttivo e strumentale del problema.
Le opere buone di un’amministrazione sull’immediato non producono consenso, se non mediaticamente preparate e pubblicizzate. È sotto gli occhi di tutti la scarsa informazione data agli italiani in merito alle cose ottime fatte dal governo Prodi. È passato solo il messaggio dell’aumento delle tasse, e nessuno ha capito il perché del salasso. Non dimentichiamoci che la maggior parte degli italiani è convinta che il debito pubblico sia quello che il nostro paese ha con l’estero. È un dato di fatto che non va né sopravvalutato né sottovalutato. Ma è un dato di fatto.
Come si spiega lo scarso gradimento del governo da parte della maggioranza degli elettori se non con la mancanza di una comunicazione adeguata? Non basta dire che «pagare le tasse è bello», anzi, non bisogna proprio dirlo.
Mentre gli italiani stringevano la cinta, la sinistra non ha fatto altro che parlare di Dico. La comunicazione che ne è venuta fuori è stata dannosa. I tre milioni e mezzo di cittadini che hanno fatto la fila ai gazebo delle primarie erano persone scontente: dimostravano l’assoluto bisogno di un cambiamento perché le cose stavano andando male, i soldi non bastavano a vivere.
Un po’ perché eravamo al governo e un po’ per diffondere ottimismo per un futuro diverso, la campagna elettorale non ha puntato sulla pesante crisi economica e sociale in cui ci troviamo. Il messaggio che è arrivato agli indecisi è che parlavamo d’altro e non dei loro problemi più urgenti. Rutelli stesso, in mancanza di una strategia oculata, non ha potuto che valorizzare il «bello» fatto dalle amministrazioni precedenti, senza poter puntare efficacemente l’indice sul «brutto». In questo momento di crisi e di paura per il futuro, il nostro messaggio è apparso per lo meno divagatorio, e forse anche irridente.
Accanto alle dovute e spietate analisi delle votazioni, reputo fondamentale che ci si chieda come parlare a tutti gli italiani per essere credibili e rassicuranti, al di là dei contenuti del messaggio.
Francamente non pensavo si potessero mettere insieme, sotto lo stesso simbolo, così tante persone dopo il crac del governo e solo a poche settimane dalla nascita del nuovo partito: è vero che il Pd è il più grande partito riformista della storia nazionale, una questione di grande rilevanza e prospettiva per tutte le ragioni che sappiamo.
Abbiamo fatto il pieno degli elettori possibili, ma non è bastato. Quasi due terzi degli italiani sono rimasti sordi alla nostra offerta. Non siamo stati in grado di proporci con autorevolezza. E bisogna pur dire che le precedenti elezioni politiche ci hanno raccontato che per la sinistra è difficile, nella migliore delle ipotesi, andare molto al di là del pareggio. Non sappiamo cosa dire a quella parte della nazione che non vota pregiudizialmente né a destra né a sinistra, bensì a favore di chi placa le sue profonde paure. Sono paure sociali, tangibili, ma, come vedremo, con importanti radici di natura antropologica.
Le ultime elezioni hanno messo in evidenza chiara e netta che l’Italia ha cambiato faccia. La politica se n’è accorta da poco, e nel nostro caso con troppo ritardo, ancorati come siamo a una visione gerarchica e stratificata della società. Abbiamo agito, anche inconsciamente, come se i partiti rappresentassero bisogni e interessi di questo o quello strato sociale. Invece davanti a noi si apre un panorama nuovo e per certi aspetti inquietante: una società fatta non più di persone e culture diverse, ma di una massa indistinta di possibili acquirenti della politica.
Si è inaugurata una nuova epoca, smemorata, mercificata, in cui non si può parlare che di bisogni primari. Non si può più chiedere consensi offrendo valori e principi, come in parte accadeva all’epoca del comunismo e dell’anticomunismo.
La strategia di Berlusconi (e non della destra classica, seppure rivisitata e corretta) parte da questa consapevolezza, che la politica (cioè il potere) altro non è che un prodotto di consumo che si vende con indagini di mercato: ieri il messaggio prendeva di mira il fantasma del comunismo, oggi lo «scellerato» indulto, la pubblica sicurezza e i clandestini (per non dire gli immigrati).
A mio avviso sono fuori strada quei politologi e quei politici che spiegano il comportamento degli elettori con spirito storicistico, come se si trattasse di individui che conservano la memoria del giorno prima. La bandiera nera che sventola sul Campidoglio non rimanda a nulla, non ha alcun rapporto con Mussolini, tranne che con la sua caricaturale immagine di «uomo con le palle», che prende per mano gli italiani assicurando loro un avvenire migliore, anzi, una potenza imperiale.
Nel Nord Bossi occupa lo stesso ruolo. Lassù c’è lui (con i suoi fucili caldi), a Roma un uomo d’ordine, al Sud il potere mafioso di sempre. Questa ossatura politica di sostanza autoritaria è stata scelta dagli italiani. Vuol dire che ne avevano bisogno, che cercano fantomatici garanti e guardiani della loro stabilità e sicurezza.
All’ampia zona magmatica e spersonalizzata della società non sappiamo parlare un linguaggio comprensibile, quello che ci farebbe vincere con la necessaria abbondanza di voti. Per questa gente i valori dell’antifascismo, della Resistenza, del pacifismo, della giustizia, della memoria e della difesa dei deboli non esistono, e là dove persistono si stanno vanificando. Sono italiani schiacciati sul presente, per i quali non valgono nemmeno gli allarmi ambientali perché li percepiscono come una minaccia lontana. Per loro non valgono neanche le prese di posizione della Chiesa quando parlano di principi, piuttosto che di fatti risolutivi dei problemi immediati.
La nuova società italiana è orizzontale, senza più passato e con un futuro lungo appena una settimana. È la società anomica e omologata preconizzata tanti anni fa da Pasolini.
È vero che i due programmi, il nostro e quello della destra, sono molto diversi, soprattutto nello spirito che li informa. Ma è anche vero che non vengono percepiti come alternativi. Ciò che nel senso comune li separa è il tono con cui sono proposti.
Vince l’immagine. Berlusconi si presenta come l’imprenditore vincente, che sa come aggirare ogni ostacolo, anche legale, anche politico, per creare benessere e bella vita. Le sue televisioni, da anni, lanciano questo messaggio, questo modo «vincente» di essere al mondo. La Lega da tempo punta i piedi su due o tre nodi solidi e chiari, dal federalismo al parlamento del Nord, all’epurazione del diverso, tutti miranti al risultato finale della secessione, quindi dell’egoismo. Ma l’egoismo non è più un disvalore, non crea alcuno scrupolo di coscienza. Contro la perdita d’identità provocata dalla globalizzazione, la Lega oppone il forte collante degli interessi e dell’identità locale, e questo le fornisce un’immagine comprensibile e stabile in quelle parti del Nord a cui si rivolge.
Al fondo di tutto c’è la paura, che è totalizzante, accecante, e che nasce da ragioni profonde, non sempre razionalmente decifrabili. I tantissimi italiani che non ci votano vivono giorno dopo giorno nell’incertezza, sia vitale che psicologica. E di conseguenza si chiudono in confini sempre più stretti, abbandonando ogni legame con il resto del mondo. Non dobbiamo, in quanto politici, scandalizzarci per questo. Faremmo peggio a negare l’evidenza, a conservare la retorica del popolo che ha sempre ragione. Il popolo non esiste più, ha cominciato a non esistere già nei primi anni Sessanta, quando il benessere ha cancellato tutto, a iniziare dal rapporto antagonistico con la natura matrigna. Conseguenza della vecchia, morente «filosofia della vita» è la decadenza della pedagogia, e del sapere.
La società di massa in cui oggi viviamo è, come direbbero i linguisti, sincronica, non cronologica né piramidale. Quelle che un tempo erano fasce sociali (con tanto di culture che le qualificavano) sono soltanto categorie economiche. «Io sono migliore di te non perché ho una cultura più forte e più prestigiosa, ma perché guadagno di più».
Di qui la terribile crisi del rapporto tra scolaro e docente (lo studente è in genere più ricco dell’insegnante) e la nevrosi degli strati più deboli, che non sono più sorretti dalla cultura della povertà, ma dipendono dalla mitologia dell’apparire in un mondo che li cancella. I poveri del neorealismo erano allegri, quelli di oggi no. La perdita dell’allegria non è meno grave della perdita dei posti di lavoro.
Lo spaesamento del cittadino, senz’altro incoraggiato dalla globalizzazione, è ormai una sorta di categoria dello spirito, è parte costituente della nostra vita. E questo non ci fa mai stare tranquilli, perché vivere senza certezze crea insopportabili ansie, insopportabili paure.
Con la nascita della società del benessere la stessa famiglia ha cominciato a traballare nei suoi valori tradizionali, vuoi per colpa della fine della pedagogia, vuoi per la mutazione della figura femminile, vuoi per il decisivo ruolo dell’eros. Per millenni l’amore coniugale non è esistito, quindi l’eros non è stato mai determinante per il suo formarsi. Oggi invece, fortunatamente, ci si sposa per amore: l’eros crea una famiglia, ma può anche distruggerla. I dati che ci raccontano la poca durata dei matrimoni sono impressionanti. È proprio l’eros a procurare, indirettamente, problemi alla Chiesa. Quando l’amore non era determinante per la nascita della famiglia, non era fonte di problemi.
La società di oggi pone conflitti e bisogni inediti, sconosciuti per secoli, e che si intrecciano con la ben giustificata paura della povertà.
Sul timore di galleggiare nel presente, senza uno zodiaco di riferimento, la destra ha basato la sua strategia del consenso. A chi l’ha votata non interessa nulla della guerra in Iraq, della desertificazione del pianeta, del funzionamento della giustizia, delle condizioni di vita dell’immigrato, di ciò che accade fuori di casa propria; capisce l’abolizione dell’Ici e del bollo auto perché ne vede subito il vantaggio concreto. Su questi problemi sente di esistere, il resto è aria fritta, non lo riguarda.
Sotto tale luce si interpreta la forte attrazione per la Lega da parte dei cittadini del Nord (operai compresi, dimentichi ormai del sacrificio e delle conquiste dei loro padri). Bossi e compagni non parlano che di soldi del Nord che vanno a nutrire il Sud parassita. Radicamento nel territorio e schei, tutta qua l’ideologia di Bossi, comprensibilmente attraente.
Non si prenda come atteggiamento sprezzante o riduttivo questo mio giudizio. Non esito ad affermare che chi ci ha votato sono persone che mi piacciono di più. È ovvio che l’elettore scelga il partito che promette benessere e che gli può rendere la vita facile. Ma non è questo il problema: nell’anomia in cui agisce, non può esercitare nessuna vocazione altruistica. E io penso che il cuore della nostra politica, ciò che informa la sua azione, sia il valore dell’altruismo.
Quindi la politica viene umiliata e fuorviata non solo dai politici mediocri, ma dalla stessa società che le impedisce di funzionare come dovrebbe. In due parole, si dimostra ancora una volta che la politica è figlia della cultura e non viceversa.
Noi risultiamo vaghi, appariamo come troppo democratici, labili e deboli di fronte alle urgenze immediate e alle minacce che ogni giorno aggrediscono i cittadini. Parliamo di riforme istituzionali, ma una buona parte degli italiani non sa nemmeno com’è fatto il Parlamento. Per loro, votare significa scegliere a chi dare il potere tout court. E lo danno a chi promette di placare le paure, a chi in quel momento ha immagine carismatica.
La storia italiana ci ha portato fin qui, fino a creare un ammasso mucillaginoso di persone incolpevoli, diventate «gente». I nostri elettori sono relativamente pochi, appena un terzo dell’intero corpo: provenendo da tradizioni di solidarietà e di equità, non sono sordi alle istanze del riformismo. Gli altri due terzi circa sono consumatori di politica. E non affermo questo polemicamente, né moralisticamente. Anzi, lo affermo con dolore, perché una società così non mi piace. Non dovrebbe meravigliare nessuno che gran parte di noi non custodisca una cultura filantropica. Lo stesso umanesimo cristiano ha subito colpi mortali dalla «rivoluzione antropologica» così dolorosamente e rabbiosamente descritta da Pasolini.
Nelle piazze affollate Veltroni ha parlato a italiani che non sono rimasti indifferenti ai richiami alti della democrazia e del suo funzionamento. Sono più di quanto si poteva immaginare, ma meno di quelli che servono per cambiare il nostro paese, com’è necessario. Veltroni ha giustamente parlato di bellezza, di futuro, di grandi potenzialità del nostro genio, di giovani che devono uscire dalla precarietà e di funzionamento dello Stato con tono appassionato e ottimista: ha dato di sé un’immagine vincente, ma che non ha avuto il tempo di radicarsi nel common sense degli italiani. Non ha giocato sulla paura, non ha demagogicamente insistito sul tema della sicurezza.
Tutto molto giusto, perché guai se in Italia non ci fosse una voce come la sua, preoccupata ma positiva, realistica e rispettosa dei grandi valori civili.
Ma tanti italiani vanno a votare nell’illusione che il nuovo governo scacci le paure. In assenza di senso civico, queste paure sono «strettamente personali». La questione centrale delle riforme elettorali e istituzionali li sfiora appena e non ne capiscono appieno il senso. Che oggi ci siano meno partiti di ieri, al contrario di quanto pensiamo, non interessa più di tanto. La poca e confusa idea della politica viene loro dalla nostra volgare televisione.
Quando la politica discute di globalizzazione, lo fa soprattutto in chiave economica, come se non influenzasse pesantemente anche i comportamenti e i bisogni spirituali dei cittadini. L’esproprio della personalità individuale, dell’identità irripetibile di ogni persona, del suo rapporto culturale con il territorio, produce horror vacui, smarrimento, «crisi della presenza», come direbbe Ernesto De Martino. In una parola, crea paura.
L’enfatizzazione del problema dell’insicurezza è dovuta proprio alla paura di non esistere in quanto individui distinti dagli altri e dalla massa globalizzata.
Berlusconi, che è entrato in politica senza avere una cultura politica, è riuscito a parlare meglio degli altri a questa massa che vive solo orizzontalmente e nell’immediato. Si è rivolto a loro senza amore, come il mercante che cerca consumatori. Il suo approccio con gli elettori è il frutto di una puntigliosa indagine di mercato, di un mercato dai grandissimi numeri. La reificazione della politica è possibile solo in assenza del valore identitario della società. La merce che l’elettore acquista si misura in sicurezza. Il suo bisogno di identità gli fa scegliere chi offre una soluzione al suo senso d’inappartenenza, di debolezza psicologica e d’incertezza per il futuro. Gli fa scegliere chi gli offre con voce convinta e muscolare una cittadinanza, un’enciclopedia di valori tranquillizzanti e la sicurezza economica in attesa della ricchezza.
Il successo della Lega si spiega soprattutto in questo senso. La reazione alla paura di affogare nel nulla ha trovato terreno adatto nell’offerta di un’area locale dove specchiarsi e riconoscersi.
Parte di quegli elettori sceglieranno noi solo se la destra li spaventerà e noi li tranquillizzeremo. Ormai per loro, come per gli operai che hanno deciso di votare a favore di avversari storici come gli ex fascisti, non esistono più istanze ideologiche né etiche capaci di dettare un comportamento. La paura ha spinto molti a chiudersi in una casa metaforica e a non vedere cosa succede intorno. Non sanno più capire che la condizione necessaria al loro benessere è il benessere di tutti.
Per chi fa politica questo è desolante, perché non si può parlare a chi non può sentire. E chi fa politica sa anche che a decidere i comportamenti non sono né le leggi né gli insegnamenti, ma il mondo che cambia e va per proprio conto. Il politico deve prendere atto della realtà e agire per il bene anche di chi non sa niente.
La profonda crisi della sinistra radicale, al di là delle contingenze elettorali, ci dice che non ha alcun senso la Storia. Il mondo non è più diviso in classi a cui tradizionalmente corrispondeva un partito politico. La realtà sociale è la notte dove le vacche sono tutte nere. Le minoranze non hanno chi le rappresenta perché esse stesse non si riconoscono tali.
Man mano che ci avviciniamo alla politica non più rappresentata dai simboli ma incarnata in un leader, si rende indispensabile una ricerca del consenso legata alla figura del premier. Berlusconi, uomo di marketing, l’ha capito prima degli altri. La sua corporate identity lo ingessa nell’immagine di imprenditore di successo che s’è fatto da solo, spiritoso, disincantato, gioviale, sorridente, raccontatore di barzellette, uomo di Stato disinvolto e demistificatore dei cerimoniali. Egli non può ingrassare, non può incanutirsi o perdere i capelli, non può sbiadire con l’età. La sua facciata di premier vincente che si fa beffa dei vuoti cerimoniali dei professionisti della politica, lo propone come personaggio umano, un po’ buffo, protagonista di una simpatica commedia. Ma anche congelato nella sua stessa icona.
La sua strategia politica è affidata a uomini di marketing, che lavorano per imporre agli italiani un’immagine edificante del leader. Fini ha capito che oggi non esistono più le identità e si è adeguato, si è nascosto dietro il carisma del premier. Ha lasciato le bandiere agli inutili nostalgici. Ha compreso che il passato è morto, e che a vincere nella politica di oggi è un bel ritratto del capo. È così negli Stati Uniti, in Spagna, in Francia, dove chi vince la sfida televisiva ha il premio più grosso. Dietro ogni campagna elettorale si muove uno staff di specialisti.
Torniamo a noi, usciti da due sconfitte pesanti come le elezioni politiche e quelle del Comune di Roma.
Il prestigio dell’ex sindaco Rutelli, a cui gli storici della città riconoscono meriti straordinari, non è bastato a convincere i cittadini. Quindi la sua scelta è stata un errore di comunicazione. Riproporre Rutelli come sindaco (sicuramente il migliore possibile per la felice esperienza già fatta) mi è tuttavia subito apparso un errore evidente. Primo, perché in contraddizione con il dettato innovatore del Pd; e poi perché egli si è fatalmente sforzato nella difficile impresa di difendere Roma da chi era legittimato a elencarne i mali. Rutelli non poteva che esaltare l’operato suo e del sindaco Veltroni durante le amministrazioni precedenti, facendo il gioco dell’avversario, il quale, paragonando Roma a una suburra infetta e violenta, rinfocolava la rabbia e la paura degli scontenti. Senza contare che al cittadino viene spontaneo puntare su un sindaco nuovo quando l’altro è già stato sperimentato e apprezzato.
E bisogna pur riconoscere che molti cittadini hanno visto perpetuarsi nella scelta di Rutelli il vezzo di decisioni prese per un’esigenza di equilibri interni al Palazzo.
Il Pd deve al più presto trovare lo smalto della novità e non riproporre la politica come scannatoio. E se ancora non si può fare altrimenti, ci si scanni almeno in segreto. Quanto male ci ha fatto la litigiosità del nostro governo!
Questo poco edificante ritratto della situazione ci dice che bisogna studiare i modi migliori per comunicare con efficacia i nostri progetti. Stare all’opposizione, per lo meno, aiuta a creare di noi l’immagine di una forte e costruttiva alternativa alla destra. Bisogna farlo da subito, denunciando tutti i mali prodotti dall’avversario e proponendo le nostre soluzioni. Non solo, ma si deve essere presenti con un nostro parere anche su questioni non immediatamente politiche, cosicché la nostra voce, nel tempo, diventi un punto di riferimento sicuro per gli scontenti.
Gli argomenti di certo non ci mancheranno. Ma la questione rimane sempre la stessa: non bastano gli argomenti, sono altrettanto fondamentali i modi con i quali lanciamo i nostri messaggi. È evidente che con la voce del leader si esprime tutto il partito. Tutti possiamo e dobbiamo dare i nostri pareri, anche in pubblico, ma l’ultima parola spetta al leader, che fa la sintesi ed esprime in due parole le prese di posizione del Pd.
In buona sostanza, è necessario uno staff di comunicatori che forniscano dati e sondaggi al partito ed elaborino la forma dei messaggi su indicazioni politiche precise. Partiamo dal principio che è sempre più forte la voce di chi attacca rispetto a quella di chi si difende.
Non dimentichiamo che nell’ultima campagna elettorale Veltroni ha entusiasmato circa un milione di persone che hanno riempito le piazze, ma ricordiamo anche che gli elettori erano più di 40 milioni. Malgrado questo, il risultato ottenuto è grande e significativo. Bisogna rivolgersi ai grandi numeri, e di conseguenza semplificare e teatralizzare i messaggi, che devono avere una loro «universalità». Non dobbiamo disdegnare l’idea di considerare l’elettorato come un grande numero di persone che hanno rotto le righe. Ogni alternativa a questo «modo di parlare» è solo demagogia, buoni, quanto vuoti, sentimenti.
Bisogna essere tutti solidali sotto il grande manifesto di Veltroni, legittimato dalle primarie a essere voce di tutti noi. È giustissimo aver scelto la strada del radicamento attraverso l’iscrizione al partito, ma è altrettanto indispensabile portare a termine il rinnovamento politico promesso. È bene da un lato alimentare il dibattito interno e dall’altro non tornare alla logica devastante dei gruppi di potere. I tentativi, in questo momento, di un ripensamento o di un cambio della guardia confonderebbero e scoraggerebbero anche lo zoccolo duro dei nostri elettori.
Queste mie riflessioni vogliono suggerire un lavoro che a mio avviso il Pd deve fare. Esse vogliono porre al centro della nostra attenzione l’importanza della voce che dobbiamo scegliere quando parliamo, la voce forte dei nostri valori. Dobbiamo essere in grado di restituire valore ai valori creando serenità e sicurezza, e per farlo è bene sapere che non basta dire le cose: è necessario scegliere la strada giusta per dirle.
Occuparsi seriamente della comunicazione comporta come conseguenza un forte ridimensionamento dei «caminetti». Significa uscire dal palazzo e scendere tra gli italiani. E questa è sicuramente l’immagine più originale e luminosa che il Pd può dare di sé.