Per gentile concessione dell’autore, professor Alberto Melloni – docente di Storia contemporanea presso l’Università di Modena e Reggio – pubblichiamo la traccia dell’intervento tenuto a Modena il 10 maggio scorso, in occasione della commemorazione del “Giorno della memoria per le vittime del terrorismo”, promossa dalla Provincia di Modena.
Si tratta di un testo importante e utile per comprendere come la strategia della tensione, la lotta armata dei terroristi e, infine, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro abbiano segnato profondamente le vicende italiane, tanto da dirottarne gli esiti verso approdi inediti (rispetto a quelli previsti dai protagonisti di allora, come Moro stesso e Berlinguer) e di cui ancora oggi portiamo le conseguenze.
Melloni pone al centro del proprio discorso – che non è meramente storiografico – il lungimirante disegno politico e la figura di Moro, cioè della “vittima” per eccellenza di quella stagione, il cui pensiero, negli ultimi trentanni, è stato sovrastato sia dalle parole dei carnefici, sovente intervistati e spesso autori di memorie, sia dalla pelosa curiosità per l’aspetto “noir” del sequestro, del quale ancora tanti interrogativi restano inevasi.
Per restituire luce ad una figura fondamentale della nostra democrazia, la cui scomparsa rappresenta lo spartiacque del “nostro spazio costituzionale”, spero siate in molti a leggere questo saggio di Alberto Melloni.
Per Moro
Storia/memoria
Il grande comandamento che sovrasta l’occidente in questo nostro tempo è quello della memoria. Abbiamo cercato per quasi due secoli di conoscere il passato e di organizzarlo, di dargli dei metodi (la ricerca storica positiva), degli schemi globali di interpretazione (la filosofia della storia d’impianto hegeliano) e di trasmetterli alle nuove generazioni attraverso istituzioni scolastiche sempre e comunque responsabili di fronte ad una collettività, fosse quella dello Stato o anche della chiesa, se del caso. Poi il peso delle cose, la illuminata rinuncia ad una teodicea in cui Dio risponda dei mali del tempo, ci ha lasciati soli davanti alle cose, ed allora la storia è diventata una istanza che quanto più sembra imparentarsi al tribunale, pronunciare sentenze e mai più, tanto più evade il suo compito: assolve, sminuzza, e alla fine consegna solo un obbligo. Quello del ricordare, perdendo di vista proprio ciò che più serve a capire – i contesti, i dettagli.
Credo si debba a questo un’enfasi sugli anniversari che creano interstizi nei quali l’indifferenza è protetta e poi grandi momenti topici, rientro in grande stile sulla scena pubblica degli eventi, assistiti dai reati della memoria in qualche legislazione, ma in fondo strutturati per passare presto e senza conseguenze.
Il trentesimo
È per questo che il trentesimo dell’assassinio di Aldo Moro, in questa giornata giustamente scelta dal legislatore come memoria pubblica delle vittime del terrorismo, costituisce un appuntamento necessario e pericoloso: perché sensibilizza e anestetizza quella che a volte sembra la coscienza collettiva del paese, altre volte un grande e caotico parcheggio delle memorie dove tutto si mescola come in una nuova toponomastica immateriale che scandisce calendari e momenti.
Eppure, nel grande obbligo della memoria, questo trentesimo può servire ad almeno due generazioni per consegnarsi il ricordo di giorni che stanno oggi – e solo oggi – come lo spartiacque fra noi e la costituzione repubblicana.
I giorni
Fermiamoci un momento su quei giorni del 1978, su ciò che hanno significato. Pronunciare quell’anno significa parlare dell’anno IX di una violenza politica che non è convenzionale far iniziare a Milano, il 12 dicembre 1969, quando una bomba esplode in una banca di Piazza Fontana: da quell’in principio discende una linea di sangue che vede una generazione tentata a rompere con la mediazione politica e passare armi e bagagli alla lotta armata. Lotta armata alla quale ha preparato il terreno una mitologia storiografica – quella della resistenza tradita – e che vede alla sinistra del Pci e nelle frange più massimaliste del Pci crescere l’attesa di una rottura rivoluzionaria di cui l’incultura generale coglie i segni nelle lotte operaie e nei fermenti del mondo studentesco. Lotta armata che si alimenta nell’antagonismo spesso “militare”, nelle piazze e nelle città con “fascisti”, nati quando il duce era già morto e la democrazia instaurata nell’Italia repubblicana: la loro contiguità con ambienti dei servizi segreti e con un reticolo politico-militare che si pensa come un antemurale contro il comunismo, sembra dar valore al paradigma gramsciano, per cui in Italia ogni sovversivismo dal basso corrisponde a un sovversivismo dall’alto. È la voce di un poeta e di un poeta del cinema come Pier Paolo Pasolini che intuisce questo clima di violenza nel quale lui stesso rimarrà ucciso come una apocalisse del paese.
Le Br sono parte di questo clima e di tutte le sue ambiguità: ed anzi, in una iniziale contiguità con ambienti cattolici estremisti a Reggio, dimostrano di saper interpretare il bisogno di rottura che la giovane generazione ha concepito nel 68 e che non riesce a partorire. Le loro azioni, inizialmente lievi sul piano militare, diventano sempre più sanguinose, sempre più efferate: sparano allo “stato” e uccidono proletari in divisa; costruiscono paraocchi ideologici sempre più cervellotici sul dominio in Italia del sistema imperialistico multinazionale e di fatto creano un clima che paralizza lo sviluppo della democrazia italiana. Vivono in clandestinità, ma il loro reclutamento avviene quasi alla luce del sole, al punto che sul salto di qualità della lotta da portare “al cuore dello Stato” nell’autunno del 1977 tengono dei “seminari” (sic) in un’aula della Sapienza.
La figura di Moro
In questo clima si sviluppa il disegno politico di Aldo Moro che è un capo e nel 1978 “il” capo del partito che è ininterrottamente al potere da trent’anni. Moro è diventato un politico attraverso le vie più normali: giovane studente cattolico entra nelle organizzazioni dell’azione cattolica e in quella esperienza partecipa al grande sforzo per ripensare la democrazia alla fine della seconda guerra mondiale. Pur essendo stati il clericofascismo un elemento decisivo del regime mussoliniano, gli ambienti della chiesa sono fra i primi, insieme ai comunisti, a porsi il problema di chi e come avrebbe fatto una nuova Italia dopo la fine della guerra. Sono infiniti i cenacoli che – leggendo Maritain o semplicemente spremendo i discorsi di Pio XII – cercano di capire la democrazia: regime che il cattolicesimo non amava (perché la maggioranza non è un criterio morale), ma nel quale impara a cercare occasioni per un rinnovamento di cui si sente spasmodico il bisogno.
Alcuni giovani professori universitari sono protagonisti in questo sforzo: Moro, che s’è messo in luce come firma di Azione fucina, presidente dal 1939 al 1943 di quella azione resa ufficialmente orfana del suo assistente, don Montini, da una congiura clericofascista nel 1933, ma ancora guardato da utti i fucini come l’ombra che rassicura chi pensa che crisi e cultura siano legati da un nesso indissolubile. è uno di questi, presto assorbito nell’orbita di Dossetti che di questa generazione è il leader e che della componente democristiana dei 75 alla costituente è il regista indiscusso. È accanto a lui, La Pira, Lazzati, Fanfani, che Moro si impegna nella politica: in tempi di scontri ideologici durissimi, ma anche di speranze – prima fra tutte la speranza che la cultura potesse cambiare il paese. Moro, che figura fra i firmatari di Cronache sociali, si forma alla politica così: anche se quando Dossetti dichiara chiusa la sua vicenda politica, non seguirà quella via, di fatto imboccata anche da Lazzati e in certo modo da La Pira che passa alla costruzione di una democrazia dal basso.
Anzi Moro, insieme a Fanfani, diventa il protagonista di una seconda grande transizione della democrazia, dopo quella dalle democrazia informe alla democrazia costituzionale: ed quella che passerà alla storia come l’apertura a sinistra. Il fatto che nel 1948 l’alleanza fra socialisti e comunisti sia stata battuta dal cartello democristiano non costituisce per gli avversari interni di De Gasperi un risultato, ma un problema: la questione non è se la Dc potrà resistere nei numeri al fronte avverso, perché le condizioni internazionali impediscono di pensare ad una Italia assoggettata all’impero sovietico. La questione è come impedire che la Dc diventi un mero partito dell’anticomunismo e si trovi a gestire in modo innaturale una identità conservatrice che non appartiene a un partito popolare e “pedagogico”: nasce lì l’idea di favorire l’autonomizzarsi del Psi e il suo progressivo coinvolgimento nell’area di governo.
3 Avversari
In questa idea Moro si troverà di fronte tre avversari. L’avversario più duro è la chiesa, nella quale prevale la logica che al fondo un bel partito confessionale e anticomunista non sia così male: il cardinal Siri, quando Moro diventerà per la prima volta presidente del Consiglio (all’età di Zapatero) di un governo di centro-sinistra organico, vaticinerà il sangue come lavacro dell’affronto fatto ai vescovi. Ma la chiesa, dal 1958, è anche la chiesa di Giovanni XXIII, che pur essendo rimasto fedele alla linea ufficiale di contrarietà all’apertura a sinistra quand’era patriarca, divenuto papa pretende una distanza dalla vicenda politica assai chiara: talmente chiara che gli si disubbidirà e l’Osservatore Romano pubblicherà (contro Moro e Fanfani) dei “punti fermi” che indignano il papa e sgomentano Moro.L’altro avversario è la diplomazia statunitense che, ancora quindici anni dopo la liberazione, continua a considerare l’Italia e la Germania partner deboli, pericolosi e dunque da tenere con le briglie politiche più corte che mai: sarà John F. Kennedy che (era previsto nel viaggio a Roma di giugno 1963 e sarà ritardato di qualche settimana dalla morte di Giovanni XXIII) verrà a dire il suo via libera per un esperimento che punta a battere i comunisti con una politica sociale più avanzata, una politica economica di programmazione e una politica estera di fedeltà alla Nato allargata nelle sue basi di consenso. Il terzo avversario è la Dc stessa: proprio la sua struttura territoriale, il suo radicamento e l’adozione di principi di democrazia interna rigorosi, rendono “il partito” difficile da persuadere. E il centrosinistra italiano deve a Moro l’aver smussato e convinto, là dove l’irruenza fanfaniana avrebbe cercato lo scontro e la rottura. Ma quella esperienza è segnata ugualmente da debolezze politiche interne e internazionali: come la sua incubazione era passata dalla tragica esperienza del governo Tambroni, che nel 1960 se ne va solo dopo aver lasciato i morti sulle piazze d’Italia, così il suo sviluppo incontra pericoli gravissimi, come il progetto di un golpe – il piano Solo – che dovrebbe mettere il morso alla democrazia parlamentare e consentire una sorta di “pulizia” politica di cui i regimi militari d’America Latina forniranno paradigmi eloquenti. E inoltre l’esplodere della rivolta giovanile, l’autunno caldo degli operai nel 1969, rendono evidente che quella coalizione sta entrando in una crisi strutturale: Moro ne dà un giudizio profondo e fiducioso (“tempi nuovi si annunciano…”).
Ma egli molto più di altri vede la necessità di una nuova fase: è il Moro che rielabora l’illusione fanfaniana di compattare chiesa e Dc nel referendum sul divorzio, che invece certifica l’incapacità della Dc di capire il paese, e vede in una terza fase la cooptazione del Pci nell’area di governo. La prospettiva è quella che questa forma di validazione che sancisca definitivamente l’autonomia almeno intellettuale da Mosca dei comunisti italiani, possa preludere poi ad una alternanza fra forze moderate e progressiste, che in realtà sarebbe diventata possibile solo dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’Urss. D’altronde l’emergenza economica iniziata con la crisi petrolifera del 1973, l’emergenza terroristica che vede lo Stato del tutto impotente e impreparato davanti alle bande e alle manovre dei traditori della repubblica, l’emergenza sociale richiedono atti che incontrano le stesse ostilità di quindici anni prima.
La contrarietà ecclesiastica ad un accordo con i comunisti – nelle cui fila e nel cui elettorato i cattolici sono ormai molti – scavalca ormai la politica italiana e si confronta direttamente con Kissinger, ma che non può cancellare la comunanza di vita che l’allora monsignor Montini e il professor Moro hanno avuto negli anni Quaranta. E lo stesso dipartimento di Stato prende posizione in modo talmente chiaro che Moro, al termine di un incontro a Washington del 1971, si sente male e pensa di lasciare la politica. Nella Dc, infine, le resistenze sono ancora più forti e si manifestano: le interpreta un oscuro costruttore di palazzi: «La vera alternativa è nella DC, una DC che si trasformi in modo da permettere al PSI di tornare al governo. Vede, io sono un pratico ma anche un sognatore: spero che venga fuori una nuova classe politica, senza cadaveri nell’armadio, le mani pulite, poche idee ma chiare, capacità di farsi capire… La realtà locale sta cambiando, soprattutto in Lombardia e a Milano, dove un uomo di gran valore come Mazzotta ha conquistato la federazione DC, coagulando la sinistra anticomunista della Base e di Forze Nuove, la Coldiretti, Comunione e Liberazione. Altre forze si ritrovano attorno ad uomini come l’on. Usellini, un industriale che si è impegnato nella politica sull’esempio di Umberto Agnelli, come Mario Segni, come il ministro Pandolfi. Sono politici che si sanno presentare in modo chiaro e immediato facendosi capire dalla gente e non come Moro che ogni volta che apre bocca ci vuole un esercito di esegeti per intepretarlo» (Silvio Berlusconi a Mario Pirani, “Quel Berlusconi l’è minga un pirla”, Repubblica, 15 luglio 1977).
Contro questa idea Moro si batte e vince: vince persuadendo, smussando, ricollegando rpesciri quella sua ipotesi ad una idea della nazione come un sistema politicamente bloccato, ma proprio per questo necessariamente percorso da un dinamismo interno che sposta continuamente il baricentro della politica in avanti. Lo “stato di necessità” diventa così canone, dura regola estetica che, come il sistema tonale nell’ultimo Puccini, è necessario per esplorarne i limiti, valorizzare le potenzialità dell’infintesimo che il canone non prescrive. Un disegno che, finalmente, a febbraio del 1978, sembra aver trovato la sua formula. Un governo a guida democristiana, pieno dei “peggiori” democristiani, sostenuto dal Pci di Berlinguer in una logica di solidarietà nazionale.
Idi
Non può essere Benigno Zaccagnini, un pediatra di Ravenna diventato segretario politico della Dc, a garantire da solo questo passaggio: serve Moro – un Moro presidente del consiglio nazionale del partito – e serve la capacità di Moro di persuadere, di dare all’istinto anticomunista un posto di secondo piano rispetto al dovere di favorire la crescita democratica. Moro questa capacità la dispiega a febbraio 1978, convincendo i gruppi Dc ad accettare di votare il governo Andreotti; e la usa ancora con Zaccagnini il 15 marzo, per mettere a punto il dibattito parlamentare dell’indomani, senza però rinunciare alle abitudini di vita (la barba fatta con acqua scaldata al fuoco, la passeggiata talora di due ore, la discussione con gli studenti dopo lezione) e alla lettura. Il 15 marzo, la sera, Moro inizia un libro di Jürgen Moltmann, Il Dio crocofisso.
L’indomani, mentre sta andando in parlamento, un gruppo di fuoco brigatista blocca l’auto di Moro e della scora in via Fani: uccide i cinque agenti, prende Moro e le sue due borse di documenti, lo benda con occhiali da saldatore, lo chiude in una cassa di legno e lo porta in via Montalcini, dove è stata preparata una prigione, 2,5m per 1,20 circa. Insonorizzata, luce artificiale, cesso chimico, bocchetta condizionatore; una branda, uno sgabello, una lampadina. Fine.
Le idi di marzo della Repubblica sono queste: e si prolungheranno per 55 giorni atroci, eterni. Con da un lato un governo che, incassata la fiducia delle Camere in un clima apocalittico decide per prima cosa che “non tratterà” – quando le Br non hanno ancora parlato di trattativa e quando, se mai, la logica delle cose fa pensare ad un sequestro per uccidere Moro (“giustiziarlo” nei canoni della giustizia proletaria) dopo avergli carpito informazioni destabilizzanti. Dall’altro le Br che si trovano in mano un uomo infinitamente più abile e più colto di loro, ma sottoposto all’arbitrio dei suoi aguzzini che con l’informazione e la disinformazione se la sanno cavare. Fuori c’è un paese frastornato a cui solo Luciano Lama prova a spiegare con parole adeguate ciò che è in gioco: le istituzioni democratiche. Che sono in pericolo non per la trattativa(lo dirà Lama, questo, ma solo tre settimane dopo in una adesione alla linea del partito comunista che sa benissimo come davanti al terrorismo rosso non possa essere il Pci a mostrare aperture o spiragli), ma per l’azione di destabilizzazione che gli assassini – un piccolo gruppo di assassini – stanno cercando. La trattativa sarà posta sul tavolo solo il 15 aprile e ci sarà: anzi, ce ne saranno più d’una. Almeno una sulle carte Moro, fatta per recuperare documenti e informazioni date da Moro ai rapitori volontariamente o involontariamente, e una fatta per ricomprare l’ostaggio, di cui è protagonista il Vaticano.
Trattative che Moro cerca di dirigere dalla prigione, ma che le Br minano facendo uscire in pubblico ciò che Moro vuole resti segreto e viceversa, con una spregiudicata ferocia. Perché Moro, in quei 55 giorni, scrive come un pazzo: scrive per non morire, dice giustamente Miguel Gotor che ha pubblicato ora le lettere in edizione critica. Lettere uscite sulla stampa durante il sequestro, fra il marzo e il maggio 1978; oppure consegnate dalle Br e man mano rese note nei processi e nelle commissioni; quelle ritrovate a Milano in via Montenevoso il 1° ottobre 1978 e quelle incredibilmente riapparse il 9 ottobre 1990 quando lo scalpello di Giovanni Bernardo, muratore, trovò una intercapedine che l’intero apparato di sicurezza dello Stato non era stato capace di intuire in quel covo bilocale. Totale: 78 lettere, 7 testamenti, 1 promemoria, 5 biglietti e 6 versioni diverse di cinque delle precedenti missive. A queste si aggiunge il “memoriale”, anche questo emerso in modo a dir poco incoerente e ambiguo, che Moro stende durante il “processo” che gli fa Moretti – l’unico, a detta dei carnefici, ad aver visto Moro oltre al suo vivandiere Gallinari. Sono testi terribili, che Italo Calvino rubrica come «la possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore» e che, poco dopo la morte di Moro un altro scrittore, Leonardo Sciascia aveva usato per un libro pieno di compiacenza verso le Br dal titolo L’affaire Moro. Compiacenza assurda perché ora sappiamo che oltre alla persona di Moro le Br sequestrarono i suoi scritti e li usarono, per diffusione o secretazione, in modo da massimizzare l’effetto di straniamento che ebbe in quei 55 giorni il ritornello di chi diceva “questo non è Moro” o peggio.
Ma pur in questo contesto, prendendo tempo con la penna, Moro guadagna spazio alle trattative e il 2-3 maggio crede di essere vicino alla liberazione, dopo aver creduto di essere a più riprese vicino alla morte. Una liberazione che forse prevedeva una soluzione per gli scritti di Moro (una consegna ale autorità? Italiane o no?) E una per Moro, per il quale il papa aveva accumulato a Castel Gandolfo 10 miliardi di lire in contanti, pronti per essere spesi in modo diretto o nel negoziato che il Psi di Bettino Craxi apre usando due mediatori dell’autonomia operaia. È lì che qualcosa – può anche darsi che non lo sapremo mai – va storto e Moro, prima di ripensamenti e scollamenti interni, viene ammazzato. 9 maggio 1978.
Quando il caso ingoia l’uomo
Ma dal 9 maggio 1978 e anche da un po’ prima inizia una vicenda parallela.
Quello spartiacque, infatti, non solo divide in due lo spazio costituzionale, marca il tempo della nazione e della chiesa (è dall’indomani della morte di Moro che l’Italia “perde” il papato) con una definitività che sembrava enunciata dalla angosciosa lucidità di quelle lettere che ora Miguel Gotor ci fa leggere in una luce e in uno spessore appropriato. Quello spartiacque ci interpella perché il “caso Moro” ha come ingoiato Moro, lo ha fatto scomparire nella interezza della sua figura attirando stormi di giornalisti, enigmisti, attorno al “giallo perfetto”, quello in cui ogni sussurro rimescola le carte, logora lo sguardo di chi scruta e solleva domande da brivido.
È possibile che il capo del partito di governo, quattro volte presidente del consiglio, possa essere rapito così, come fosse una valigia di gioielli? Il commando che colpisce in via Fani, nel quale molti dicono d’aver avuto armi difettose che s’inceppano, poteva colpire con tanta precisione? E l’unico del commando ancora libero in Nicaragua, Casimirri, sa chi erano i due sull’Honda che passano mentre Moro è ancora seduto fra gli agenti morti e sparano sui passanti per farli fuggire? E un capo dei servizi segreti che passa di lì perché sta andando a pranzo (alle 9?) da un amico chi era? E perché una radio libera alle 8.30 dà la notizia del rapimento di Moro che avverrà mezz’ora dopo? Come mai le segnalazioni su via Montalcini che arrivano alla polizia portano alla perquisizione di tutti gli appartamenti eccetto quello dov’era Moro? Perché Moro scrive a don Mennini che intende consegnarli un pacchetto di lettere: è perché c’era un canale di ritorno o visitatori di Moro in cella? Se una decina di professori di Bologna fa una seduta spiritica da cui esce il nome “gradoli”, che è la via dove c’è il covo del commando, bisogna crederci? E perché la polizia va a Gradoli paese e non alla via di Roma? E il falso comunicato delle Br fatto dai servizi segreti italiani che manda la polizia al lago della Duchessa che scopi ha? I consulenti di cui Cossiga si attornia sono tutti membri della P2 per caso o per un piano che voleva circondare il ministro? La consegna della salma di Moro in via Caetani è una provocazione o un segnale non colto? Poi dopo il 9 maggio: perché le Br tengono le fotocopie dei ms e bruciano gli originali o perché lo dicono? E perché Pecorelli, giornalista massone della P2 che tiene una agenzia di notizie esplosive, viene ucciso nel 1979? Come mai Moretti non dice mai la verità? E la latitanza di Casimirri?
Davvero Moro rimase nella cella quasi due mesi? Fu consegnato o promesso alla malavita? L’indulgenza verso i brigatisti è una forma di riconoscenza e di chi? Perché nel 1978 non si trovò il nascondiglio nel covo di via Montenevoso dove c’erano le carte Moro? Fu Dalla Chiesa che guidava l’operazione troppo sbrigativo o le trovò e le ripose lì? E c’entra niente questo con la sua morte a Palermo? Via di questo passo si possono fare migliaia di domande intriganti, inquietanti, assurde: che sono state tutte fatte e alle quali hanno risposto libri, film, sceneggiati, trasmissioni tv e tanto giornalismo.
Ma quel che interessa oggi è dire e capire perché, sotto o grazie a queste domande, tanto spazio ha avuto la memoria devastata e devastante dei brigatisti; perché le maggiori case editrici hanno voluto a catalogo quegli autori fin sulle soglie del favoreggiamento in un secondo sequestro: quello che di nuovo ha consegnato lor Aldo Moro anche da morto, rendendo disperante ed impervio lo sforzo per ricomprendere l’intero senso di una intera esistenza.
En historien
È questa una di quelle vicende nelle quali enunciare l’accaduto lo rende visibile, lo fa come apparire in tutta la sua drammaticità, ma anche in tutta la sua fragilità. Se questo trentennio diventerà l’occasione nella quale – senza togliere spazio e ruolo alla memoria – le si fornirà una base di conoscenza criticamente solida, se le molteplici dimensioni della vita di Moro diventeranno oggetto di studio e dunque pietra per affilare giovani intelligenze, questo potrà servire – almeno mi pare – a rendere tutta la riflessione su questo anniversario insieme più pudica e più profonda.
Per questo – chiede venia l’istinto dello storico – è necessario un lavoro sulle fonti: dunque non solo le fonti a stampa delle opere di Moro che meriterebbero di entrare nel corpus della biblioteca digitale italiana di cui il Ministero per i beni e le attività culturali è padre orgoglioso; anche le fonti d’archivio che oggi, per frammenti, sono nella serie Archivi del 900 o nei siti di istituzioni e Archivi (Fallace) censiti nel sito del senato.
Meriterebbe uno sforzo per digitalizzare l’intera commissione Moro che si rivela sempre più una grande fonte da trattare con tutte le cautele del case, ma passibile anche di annotazioni, connessioni, commenti di rilievo, anche con le carte dei maggiori membri.
Meriterebbe uno sforzo editare le fonti radio e tv alle quali anche la Fondazione per le scienze religiose che ho l’onore di dirigere si è dedicata costruendo in un trittico che appaia e collega fonti telegiornalistiche sul lasso di tempo fra il 16 marzo e il 9 maggio all’immenso repertorio Moro e al piccolo tesoretto di riflessioni che costituiscono una presa di coscienza severa (non quella indulgente di Sciascia, per dirne uno) su ciò che l’Italia ha perso da trent’anni, con danni di cui la lucidità del perduto aveva fornito lungimiranti visioni.
Meriterebbe infine non solo proseguire quel lavoro che Gianni Riotta ha costruito raccogliendo autotestimonianze su cosa faceva l’Italia in quei momenti, ma anche coinvolgere grandi istituzioni di ricerca per gli scavi che mancano, per i libri bianchi su Moro e sul caso Moro che i maggiori soggetti (le superpotenze, la santa Sede, ad esempio) potrebbero fornire.
A valle di questo, o al massimo in parallelo a questo: tu ricorderai diventerà un comando e non una via di fuga nell’inimputabilità di una generazione e di una nazione.
Alberto Melloni
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