Stefano Rodotà – La Repubblica
Quando a Bruxelles si scriveva la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea, qualcuno osservò che forse non era il caso di fare un riferimento esplicito alla tortura.
La prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio, si diceva, doveva guardare al futuro, non attardarsi su anacronismi, certamente nobili, ma che l´Occidente civilizzato si era ormai lasciati alle spalle. Saggiamente si decise di resistere a questa tentazione, e così il divieto, già con forza ribadito dalla Convenzione dell´Onu del 1984, è stato mantenuto nell´articolo 4 della Carta: «Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a trattamenti inumani o degradanti».
Si era alla fine del 2000. Di lì a poco sarebbero venuti Guantanamo e Abu Ghraib, le deportazioni verso compiacenti paesi torturatori, i suggerimenti del professor Dershowitz per una tortura “legalizzata” e il veto del presidente Bush contro una sia pur limitata legge antitortura. E Bolzaneto, Italia. L´Occidente ha dovuto di nuovo fare i conti con il suo lato più oscuro, rimosso non cancellato.
In Italia tutti sapevano, o comunque si era di fronte ad una vicenda per la quale davvero l´ignoranza non scusa. Voci diverse si erano levate, le testimonianze si moltiplicavano, ricordo tra le tante la narrazione di un noto giornalista sportivo che, con una straordinaria freddezza di cronista, riferiva lo stato in cui aveva ritrovato suo figlio. Ma i fatti della Diaz e di Bolzaneto venivano progressivamente respinti sullo sfondo, sopraffatti dalle violenze dei black block e dall´uccisione di Carlo Giuliani.
Sembrava quasi che le violenze dei manifestanti e la reazione mortale d´un carabiniere appartenessero ad una normalità perversa, ma governata da una sorta d´invincibile fatalità; e descrivessero comunque qualcosa che può accadere quando pulsioni e paure si fanno troppo forti.
Bolzaneto no. Da lì si voleva distogliere lo sguardo. In quelle stanze s´era manifestata all´estremo la “degradazione dell´individuo” tante volte ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale. Ufficialità, perbenismo, cattiva coscienza rifiutavano di specchiarsi nella negazione dell´umano.
Proprio quella negazione è svelata dal tremendo catalogo compilato dai magistrati genovesi, e squadernato davanti all´opinione pubblica dall´iniziativa di questo giornale, dagli implacabili reportage di Giuseppe D´Avanzo. Il silenzio istituzionale è stato rotto, la stampa ha ritrovato la sua funzione di ombudsman diffuso, l´opinione pubblica non può più trincerarsi dietro il “non sapevo”. E tuttavia la reazione già appare attutita, inadeguata.
Non è venuta un´attenzione corale del sistema dell´informazione: rispetto della regola gelosa per cui non si riprendono le notizie lanciate dagli altri? Non è venuta un´attenzione vera e intensa dall´intero sistema politico: l´eterno gioco delle convenienze, l´eterna vocazione a minimizzare? Sta di fatto che, dopo i fuochi dei primi giorni, è tutto un troncare, sopire… Le norme non ci sono – si dice. Al massimo ci saranno stati comportamenti “devianti” di qualche sconsiderato. E ci si acquieta.
Ma i Paesi davvero civili, le democrazie non ancora perdute dietro riti televisivi insensati reagiscono quando scoprono i loro vuoti, le loro inadeguatezze. S´interrogano sulle ragioni, si mettono in discussione. Proprio il trovarsi nel cuore d´una campagna elettorale avrebbe dovuto favorire il parlar chiaro, gli impegni netti, la sfida alle proprie pigrizie. Perché non dire subito che la prima proposta di legge (o la seconda o la terza, non importa) sarebbe stata proprio quella volta a colmare la vergognosa lacuna dell´assenza di una norma sulla tortura, che rende inadempiente l´Italia non di fronte a un trattato tra i tanti, ma di fronte all´umanità intera? Perché, tra le varie iniziative e commissioni annunciate con fragore di trombe, non ne è stata inclusa una incaricata di preparare proprio quel testo?
Perché tra gli impegni bipartisan su temi di grande e comune interesse, che dovrebbero vedere dopo le elezioni gli sforzi congiunti di maggioranza e opposizione, non compare la questione della tortura, l´impegno a rendere finalmente operante in Italia la Convenzione dell´Onu dopo un quarto di secolo di disattenzioni e di ritardi?
Non basta tornare sulla proposta di una commissione parlamentare d´inchiesta.
Conosciamo, purtroppo, il degrado di questo strumento: non sono più i tempi della Commissione De Martino sul caso Sindona o della Commissione Anselmi sulla P2. E, comunque, si tratta di qualcosa di là da venire, che può assumere il sapore del rinvio.
Mentre già oggi, pur con le lacune della legislazione penale, sono possibili impegni istituzionali e politici, vincolanti almeno per il futuro ministro dell´Interno: ricorso a tutti gli strumenti amministrativi disponibili per emarginare chi è stato protagonista di quelle vicende; pubblica condanna, senza troppi distinguo, nel momento stesso dell´assunzione dell´incarico. Una difesa della polizia in quanto tale può essere intesa come una promessa di copertura, la banalizzazione degli atti di violenza assomiglia ad una sorta di annuncio di una loro inevitabile ripetizione.
Che cosa dire di fronte all´affermazione di un ex-ministro della Giustizia che, parlando di persone obbligate tra l´altro a stare in piedi per ore, si sente autorizzato a fare battute di pessimo gusto sui metalmeccanici che sono in questa condizione ogni giorno per otto ore? Ma l´irresponsabilità politica viene da lontano. Ricordo un sottosegretario alla Giustizia, poi transitato nelle schiere garantiste quando le inchieste giudiziarie cominciarono a riguardare il ceto politico, che venne alla Camera dei deputati a parlare di violenze carcerarie sostenendo che, avvertiti di un trasferimento, alcuni detenuti si erano «sporcati il viso con vernice rossa».
Giuliano Amato ha sottolineato che «si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo che al loro rispetto in casa nostra». Chiediamoci perché, allora. E la risposta va cercata proprio nell´eclissi sempre più totale della cultura dei diritti, sopraffatta da un´enfasi sproporzionata e strumentale sul bisogno di sicurezza.
I diritti disturbano, possono essere sospesi, com´è appunto accaduto a Bolzaneto. La fabbrica della paura è divenuta parte integrante della fabbrica del consenso. Basta girare per il centro di Roma, dove si circola senza particolari problemi, invaso da manifesti davvero bipartisan che ossessivamente promettono sicurezza, e solo sicurezza. Quale enorme responsabilità assume in questo modo la politica, creando un clima che induce a ritenere giustificata qualsiasi reazione.
E non si insiste, come sarebbe doveroso, sul fatto che la magistratura, una volta di più, è stata l´unica istituzione capace di vera e civile reazione. Si colgono, anzi, atteggiamenti stizziti, dietro i quali non è difficile scorgere il disagio di chi avverte che l´inchiesta di Genova non rivela soltanto comportamenti inqualificabili, ma mette a nudo i limiti della politica.
Si celebrano i giudici lontani, com´è giustamente accaduto quando la Corte Suprema degli Stati Uniti condannò le violazioni dei diritti a Guantanamo. Troppi dimenticano di dire che la vergogna di Genova può cominciare ad essere riscattata solo contrapponendo la civiltà giuridica e la lealtà istituzionale dei magistrati genovesi alla violenza contro l´umano e la legalità consumata a Bolzaneto.