CHIARA SARACENO – LASTAMPA.IT
La differenza di sesso si è trasformata nella storia in disuguaglianza sociale a sfavore delle donne. Sembra quasi che l’irriducibilità di questa differenza possa essere compresa e metabolizzata solo nei termini asimmetrici della disuguaglianza: il corpo femminile diviene limite sociale delle donne e insieme risorsa da controllare da parte degli uomini. Storicamente, molti processi di ridefinizione dei rapporti di potere tra uomini sono stati accompagnati dal restringimento dei diritti per le donne e da una cristallizzazione della loro differenza. E’ stato vero per le grandi rivoluzioni borghesi, da quella francese in poi, che esclusero le donne dai diritti maschili, in primis da quelli politici. Ed è stato vero per molte lotte di liberazione coloniale, che spesso hanno comportato un restringimento degli spazi di libertà delle donne a garanzia della difesa di una recuperata «purezza» di tradizioni culturali, etniche, religiose.
Nei paesi sviluppati, inclusa l’Italia, le disuguaglianze tra uomini e donne si sono indubbiamente ridotte nel corso della seconda metà del Novecento, ma più sul piano delle norme che su quello delle pratiche sociali. La persistenza della disuguaglianza è dovuta anche a resistenze culturali e in molti casi a vere e proprie pratiche monopolistiche attuate dagli uomini. L’Italia si presenta quasi come un caso da manuale: innanzitutto nel campo della politica e in tutti i vertici delle istituzioni dello Stato e dell’economia. Più che di introduzione di quote per le donne, si dovrebbe parlare di necessità di introdurre e applicare rigorosamente norme anti-monopolio. Tuttavia l’uguaglianza è difficile da ottenere soprattutto perché le donne sono state escluse da tempo dal novero degli eguali.
L’esclusione originaria è stata rimossa sul piano formale – con l’eliminazione della autorizzazione maritale, l’accesso al diritto al voto e all’istruzione e così via – però continua ad esistere in modo più o meno sotterraneo. Soprattutto per due ragioni. Una riguarda la definizione della precondizione della uguaglianza, e della capacità di cittadinanza che ne deriva, come indipendenza dai legami, in primis dai legami che discendono dalla dipendenza altrui. Libero e autonomo è chi può signoreggiare su questi legami, non chi se ne fa carico.
La seconda ragione è l’attribuzione alle donne della responsabilità della dipendenza altrui. La condizione di dipendenza si raddoppia così per le donne, riducendone non solo praticamente, ma anche concettualmente lo status di soggetti liberi: addette ai bisogni di dipendenza altrui, rischiano di diventare esse stesse dipendenti economicamente e con ridotte possibilità di agire nella polis. Ciò è stato a lungo sancito non solo nella regolazione dei diritti politici, ma nel diritto del lavoro e soprattutto nel diritto di famiglia, che per molto tempo (in Italia fino al 1975) ha legalizzato la dipendenza economica e in parte la subordinazione civile della moglie al marito. Addette ai bisogni «particolaristici» dei loro famigliari, subordinate ai mariti, le donne vengono considerate per ciò stesso incapaci di universalismo e di interesse per il bene comune. Il loro stesso corpo sessuato e riproduttivo diviene una risorsa insieme privata (degli uomini loro familiari) e pubblica (della società e dello Stato che tramite esse si riproduce). Perciò non può essere lasciato totalmente a loro disposizione.
Per questo motivo le donne hanno avuto ed hanno più difficoltà a vedersi riconosciuto quel diritto fondamentale che è l’habeas corpus: il diritto al controllo del corpo e dell’integrità fisica. Si pensi alle norme che a lungo hanno vietato – e in alcuni paesi tuttora vietano – la contraccezione o viceversa la impongono per motivi demografici, o al ricorrente dibattito sull’aborto e sull’obbligo per la donna di portare a termine una gravidanza anche non voluta, o ancora, in Italia, a quelle parti della legge 40 sulla riproduzione assistita che configurano un vero e proprio spossessamento del controllo della donna sul proprio corpo e sulla propria salute. Per non parlare della violenza, che costituisce la principale causa di morte delle donne nel mondo. Tutto ciò ha poco a che fare con la differenza biologica ed invece molto con il potere e con rapporti di potere.
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