Furio Colombo – L’Unità
Come in economia, grandi eventi che sconvolgono il mondo accadano senza che alcun esperto li abbia predetti e sembrano cogliere di sorpresa coloro che per mestiere devono montare la guardia. Nel caso del Tibet, del drammatico e pesante tentativo di repressione,della estesa e tenace e appassionata protesta dei monaci e dei cittadini tibetani, della rivolta in corso in altre province cinesi, forse si farà bene a riconoscere, almeno in Italia, che alcuni fastidiosi testimoni – come i Radicali di Pannella – avevano detto e predetto gli eventi di questi giorni.
Al punto che questa piccola organizzazione senza riconoscimenti e senza soldi aveva sul posto, un momento prima della repressione e della rivolta, dei testimoni, mentre spiccava l’assenza della grande stampa internazionale, e la distrazione davvero eccessiva dei governi, tutti. A questo punto sappiamo benissimo che non ci sarà alcun riconoscimento per chi si è ostinato nella profezia tibetana, e che decisioni o anche solo reazioni basate su un comune sentimento di giustizia e di difesa delle persone oppresse tarderà a venire, per tanti motivi. Verrà quando ci sarà un dopo, e quel dopo lo riempiremo di commemorazione e cerimonie. Fa luce una vignetta che ho appena visto sull’International Herald Tribune del 17 marzo e dunque, devo presumere, sul New York Times di domenica.
Nella vignetta si vede una enorme fiaccola olimpica. E, dentro la fiaccola, la grande fiamma che brucia i ribelli tibetani. Serve a darci notizie della vastità della scena. In caso di severo disaccordo con la Cina è in gioco tutta l’economia del mondo, più tutta la strategia e la sicurezza del mondo, più tutto quell’immenso mondo di affari che è lo sport quando non viene celebrato come nobile competizione tra i migliori degli umani. Essi, come prevede il regolamento dei giochi, non devono essere professionisti. Ma professionisti fra i più abili e astuti del mondo degli affari sono coloro che si prendono cura di tutto, dichiarazioni politiche incluse, prima, durante e dopo i giochi, affinché non si disperdano i vantaggi immensi, nonostante alcuni costi umani.
Eppure sembra indispensabile, per ragioni di civiltà, che chi testimonia, senza grande attenzione del mondo, sulla tragedia tibetana, e lo stesso Dalai Lama, non restino soli. Il costo umano, prima che politico, del Tibet, non può essere vittima collaterale di volenterosi sportivi, in nome del famoso grido con le lacrime agli occhi: «lo spettacolo deve continuare». Non è detto, anche perché le moderne Olimpiadi hanno una brutta storia alle loro spalle, dal competere di fronte a Hitler a Berlino nel 1936, al continuare i giochi senza neppure una indecisione o una sosta, a Monaco, la mattina dopo la strage degli atleti israeliani (1972). Per prima cosa il cerchio da rompere è il silenzio. Se continua, come il silenzio che ha consentito alcuni tra i peggiori delitti del mondo, si chiama complicità, per quanto vi sia un elenco di “buone ragioni”. Il silenzio di chi? Certo dei governi. Parlo degli Stati Uniti, di solito pronti a farsi sentire su questioni di diritti umani. Parlo dei governi europei, uno per uno, e dell’Unione Europea che ha, o dovrebbe avere, una dignitosa voce internazionale. Parlo del governo italiano, la cui mitezza, in una situazione estrema e rischiosa come questa, dovrebbe avere un limite. Parlo del mondo sportivo, dal vertice olimpico alle singole delegazioni, agli atleti. Una cosa è certa. Non è possibile dire o pensare, anche solo con la trovata di evitare il problema stando zitti, che “va bene così”. “Così” è una situazione crudele, indecorosa e immorale, destinata a colorare di sangue questi giochi. Sappiamo benissimo che la celebrazione dello “spirito olimpico” comprende la sua buona dose di finzione. La testardaggine dei monaci e di alcuni testimoni, che dovevano non esserci ma ci sono, rende impossibile sia di calare la tela della finzione, sia di far finta che non esista – perché invece esiste – un vero e leale e coerente spirito sportivo, che comprende per forza il rifiuto dei massacri e la complicità del silenzio. C’è un minimo spazio e un tempo breve per decidere, ma proprio l’esiguità di spazio e di tempo dovrebbe indurre Europa, Stati Uniti, governi e leadership del mondo sportivo e farsi sentire in modo tempestivo e chiaro. Subito dopo occorrerà avere la forza e la dignità per decidere. Si può capire la prudenza, l’ammonimento a non precipitare le decisioni. Ma non si può confondere la prudenza con il silenzio. Il dovere di parlare senza ambiguità, a cominciare dal nostro Paese, dal nostro governo e da chi ha responsabilità in Italia per i giorni olimpici, è inevitabile e urgente.