Una teleferica che sale rovente al dirupo del Monastero delle Tentazioni permette di vedere dall’alto gli scavi archeologici sul bordo dell’oasi di Gerico, considerata la più antica città del mondo. È iniziata proprio qui 9500 anni fa una forma di vita — la città — che continua ad essere leva della condizione umana. Il portale Treccani (accessibile gratis come Wikipedia, ma immune dall’ideologismo dei wikiwriters) ricorda le «città» di Ur, Ugarit, Mersinia, Menfi, Harappa, Mohenjo-Daro che dalla fine del calcolitico entrano nella narrazione storica. Più su stanno le città-icona: Atene, che dà linguaggio alla politica come sacralità intrinseca alla vita comune; Sodoma, che, profanata la legge dell’ospitalità, sprofonda nel fuoco di giustizia dell’Altro per antonomasia.
Icone fragili, le città erano il tema dell’Expo di Shanghai del 2010, che in un padiglione rappresentava la vita urbana come un tetto che non rovinava sui visitatori perché sorretto da due colonne di volumi: i libri sull’utopia. Da Campanella a Platone, da Confucio alla Bibbia ciò che impedisce ad Atene di diventare Sodoma, insegnava la Cina, è qualcosa di impalpabile e solidissimo. Lo si chiami utopia, pensiero, silenzio — è questo cibo che nutre l’anima (un tema che l’Expo di Milano potrà davvero eludere?), che rende la città il moltiplicatore di sviluppo, di conoscenza, di interessi, di conflitti. Non a caso la «modernità» della guerra colpisce le città: per distruggere questo tessuto più e come le infrastrutture. E non per niente la modernità ha bisogno di spazi urbani per moltiplicare bisogni e opportunità, nel mondo così come in Europa.
Unico continente del pianeta privo di megalopoli, l’Europa nasce dalla confessionalizzazione e dalle guerre di religione, trasforma le città di mercanti e frati in città degli affari, e celebra con disinvoltura il grande crimine del furore colonialista costruendo capitali dorate ai propri imperi globali. Inventa la città industriale, fa del binomio sfruttamento-fumo una poetica. E adesso, nel pieno di un default politico che sembra più la causa che l’effetto della recessione, si interroga su cosa nutra la città pluralista.
La Pira avrebbe parlato d’anima. Dal 2008 questa riflessione usa un aggettivo ormai entrato nel gergo di Bruxelles: «Smart». «Smart cities» — nel senso di facili, gradevoli, simpaticamente utili. Il concetto non è di conio europeo: l’amministratore delegato dell’Ibm Sam Palmisano, il 6 novembre 2008, davanti al Council on Foreign Relations a New York, spiegava che nell’inizio del secolo XXI il pianeta non era più solo interconnesso, ma anche «smarter», sempre più capace, cioè, di «infondere intelligenza nel modo in cui il mondo funziona: i sistemi e i processi che attivano beni fisici da sviluppare, fabbricare, comprare e vendere, servizi da proporre». L’Unione Europea — Chiara Del Bo, Andrea Caragliu e Massimo Florio, in Statale e al Politecnico di Milano, ne sono i migliori analisti — adottava nello stesso torno di mesi i termini «smart» e «smart cities» su larga scala, per indicare non una tendenza (come implicava il comparativo «smarter» usato da Palmisano davanti al think tank della 68ma strada), ma una qualifica in cerca del suo spessore politico.
Nei suoi primi esperimenti la «smart city» europea era dunque quella città che — a disuguaglianze invariate — erogava prestazioni a più alto contenuto tecnologico al cittadino. Avevano iniziato le regioni europee affacciate sul Mare del Nord. Poi Belgrado con i suoi 20 mila sensori o Santander che con 12 mila apparecchi regola il traffico, i parcheggi, gli accessi ai servizi. Oggi si cercano nuovi orizzonti semantici, come quelli che a fine settembre saranno discussi al «MonAmi» di Amburgo (è la sigla del «Mobile Networks and Management» di cui fa parte il centro trentino del Create-Net). Perché perfino gli opliti della tecnocrazia bruxellese hanno ormai capito che la correlazione fra una città piena di tecnologia e prosperità non è così univoca.
Da Gerico in qua la città non è solo ottimizzazione di prestazioni all’individuo, siano esse il riparo dalle tempeste del deserto o la riduzione delle emissioni di CO2. Non è solo la fornitura di un supporto alla perpetuazione dello status sociale della famiglia, espresso nel medioevo dai Palazzi dei notai ed oggi dalle infrastrutture necessarie a celebrare il culto svuotatore del weekend. La città è spazio di solidarietà potenzialmente eversive (quando nell’Emilia terremotata tutti hanno tolto le password e aperto liberamente i loro wifi sembrava d’essere in California). È sperimentare diversità riconciliate dalla (appunto) «cittadinanza»: è l’ambito dove le opportunità non sono meramente eguali, ma sono quella cosa che rende eguali o meno diseguali. La città è il luogo dove si consuma una cultura che è fatta anche di prodotti, ma dove si produce cultura fatta di contenuti intellettuali, spirituali, artistici, tecnici.
Anche questo obiettivo fa parte delle sfide che l’Europa vede profilarsi e su cui il programma di ricerca «Horizon 2020» investirà nei prossimi anni 85 miliardi di euro, dedicati in parte alla ricerca sulle «smart cities». Molti Paesi europei si sono attrezzati a questa competizione da un lato con grandi aggregati di ricerca e sviluppo detti clusters e dall’altro «clusterizzando» gli specialismi (la Germania ha un cluster su religione e politica, ad esempio). In Italia il ministro Profumo ha messo a bando i primi clusters di trasferimento tecnologico, di cui ad ottobre sapremo la fisionomia: essa ci dirà moltissimo sulla lealtà e sulla capacità di servire l’interesse generale del nostro sistema industriale, accademico, politico. Per costruire città migliori e prospere non bastano infatti le tecnologie.
La tecnologia può sensorizzare le città per favorire la transumanza dei turisti cinesi, per pascolare gli indigeni in auto, per dare ai bambini l’equivalente touch del calamaio, per colmare la solitudine adolescenziale con la sociabilità virtuale, che distilla cose buffe o velenose con la stessa facilità. Ma se dietro e dentro la tecnologia non ci sono contenuti le città rimangono muti aggregati dell’umano sfinimento. Provare a renderle «smart» per tutti è la sola cosa che le rende smart davvero, anche per il business. E per questo servono culture di giustizia, conoscenza, politica. Che non devono essere pure loro smart: basta che siano semplicemente giustizia, conoscenza, politica. Senza di esse le rovine arroventate di Gerico ci ricordano che di fare una città che fosse smart per pochi sono stati capaci tutti. Da quasi diecimila anni.
La Lettura/Corriere della Sera 09.09.12