Bella idea: parliamo di Denaro e bellezza nella Firenze del Quattrocento, e parliamone oggi. Il punto è come. È il denaro che genera bellezza, o la bellezza che va in cerca del denaro? Certo soldi e arte, in tempo di crisi, fanno coppia obbligata: e infatti la mostra in corso a Dublino, Terrible Beauty: Art, Crisis, Change è stata annunciata da El País col titolo lapidario Arte sin dinero, “arte senza denaro”. Solo perché il magro budget dell´ambiziosa mostra irlandese si ferma a 800.000 euro, o anche per dimostrare che la bellezza non ha poi bisogno di tanti soldi? Mercanti e banchieri fiorentini, si sa, innescarono in tutta Europa commerci e scambi raccogliendone formidabili profitti; ma spesero enormi somme in commissioni d´arte, fondarono chiese e conventi, costruirono palazzi, ordinarono statue e quadri. Alla morte di Lorenzo il Magnifico (1492), i Medici avevano speso il triplo dell´intero patrimonio del nonno Cosimo in architetture, pitture, sculture donate ai loro concittadini; opere che in buona parte sono ancora lì, nostre e per noi. A tanta generosità (o a tanto spreco) pose fine l´intransigenza di fra´ Girolamo Savonarola, coi suoi roghi delle vanità dove andarono in fumo opere d´arte che oggi Christie´s e Sotheby´s sarebbero felici di contendersi. Insomma, qualcuno ama dire, fu il Mercato che finanziò il Rinascimento. Ma perché tanta bellezza fu prodotta da quel denaro, e come mai ancor oggi possiamo goderne in strade e chiese di Firenze (e non solo)? Denaro e bellezza erano, sono e saranno un accoppiamento inevitabile, e i rari sponsor di restauri e mostre, oggi assai corteggiati, sono davvero, come qualcuno vuol farci credere, altrettanti emuli di Lorenzo il Magnifico? Questa perversa equivalenza dev´essere combattuta a ogni costo.
Fra il denaro dei Medici e dei Sassetti, dei Bardi e dei Peruzzi, e la bellezza che gli artisti hanno creato per loro e per noi vi fu allora una potente mediazione, anzi due: la condanna, religiosa e sociale, dei guadagni nati dall´usura rendeva indispensabile riscattare gli eccessi del profitto, davanti a Dio e davanti agli uomini. Perciò papa Eugenio IV, a Cosimo de´ Medici che gli aveva chiesto come potesse ottenere la misericordia divina senza rinunciare alla ricchezza, rispose: dando diecimila fiorini al convento di San Marco. Non è il nudo denaro che spiega e fonda l´arte e la bellezza del Rinascimento, bensì questa dimensione propriamente etica del donare a Dio donando alla città (e ai concittadini), investendo il denaro privato, comunque guadagnato, sul teatro delle strade e delle piazze, conquistando pubbliche benemerenze e mettendosi in gara con le altre famiglie di cospicua ricchezza. In quel mondo così radicalmente diverso dal nostro, massimo vanto dei ricchi era che il loro denaro privato producesse arte pubblica incrementando il bonum commune di pertinenza di tutti i cittadini (anche dei più poveri): ed è su questa concezione generosa e lungimirante del mecenatismo che si costruirono stabili fortune, e che i Medici finirono per trattare alla pari coi sovrani d´Europa, anzi col diventare sovrani essi stessi. Nulla di più lontano dai meschini connubi di arte e denaro che ci vengono propinati da politici a corto di idee, pronti a svendere il Colosseo o i templi di Agrigento, gettandoli sul mercato come fossero inutili ninnoli di una nonna spendacciona e per fortuna defunta. Nulla di più lontano dalle manovre indegne dei privati che si travestono da mecenati onde impadronirsi dei beni pubblici, privatizzandoli per proprio vantaggio, sottraendoli al portafoglio proprietario dei cittadini con la colpevole complicità di ministri e assessori.
Non è il denaro che misura la bellezza. Al contrario, «la bellezza non fa le rivoluzioni, ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei» (Camus); la risposta estetica ha una dimensione politica, mentre l´incapacità di riconoscere la bellezza «è in larga misura la condizione umana attuale, sostenuta e favorita dalla nostra economia» (Hillmann); è la cecità davanti alla bellezza che genera «cinismo, deriva morale, passività, resa, indisponibilità a scandalizzarsi anche dinnanzi alle più insopportabili nefandezze morali ed estetiche», ed è di qui che nasce e si radica in Italia «la politica di tagli alla cultura, alla scuola e alla ricerca, e un sistema dell´arte divenuto ormai una slot-machine» (Roberto Gramiccia). Abbiamo bisogno, oggi più che mai, della «terribile bellezza» che dà il titolo alla mostra di Dublino (aperta il 6 settembre), ma anche alla biennale di Lione (aperta il 15 settembre): di una bellezza non figlia del denaro, ma madre di pensiero, capace di riflettere e far riflettere sul nostro tempo, come nel famoso verso di Yeats, A terrible beauty is born (1916). La bellezza dell´arte non è fuga dal presente, ma impegno a intenderne conquiste e tragedie: è una bellezza terribile, perché regala libertà. Perciò anche alla bellezza del Rinascimento dobbiamo saper guardare sapendo che fu costruita sopra un senso potente e diffuso del bene comune, e cioè del capitale sociale che stiamo sperperando in nome di un banale mercatismo individualista. Nel rogo delle vanità di cui oggi avremmo bisogno sarebbero da bruciare non opere d´arte, ma le mille menzogne (a volte travestite da leggi, circolari, cataloghi di mostre) che contro la storia d´Italia e contro il bene comune fanno della bellezza la serva del denaro e del potere.
La Repubblica 17.09.11
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“QUANDO LE BANCHE EUROPEE FINANZIAVANO IL RINASCIMENTO”, di Antonio Pinelli
A Palazzo Strozzi di Firenze oltre 100 opere illustrano il rapporto tra arte ed economia dal Medioevo all´esplosione dell´umanesimo. È scandita in otto sezioni a partire dalla nascita del sistema bancario fiorentino. Dallo scambio tra profitto e salvezza dell´anima nasce anche la Cappella degli Scrovegni. Il mercante Chigi volle nel contratto che Raffaello rendesse la sua tomba immortale
Arte e denaro, arte e oro, arte e potere. Tre binomi inscindibili da sempre: dall´alba della civiltà a questo nostro problematico terzo Millennio, attraversato da roventi folate di ansie millenaristiche. Anzi, così drammaticamente attuali proprio in questo febbrile scorcio d´estate, che ha innalzato entrambi – arte e denaro – sull´altare d´oro zecchino dei «beni rifugio»: provvidenziale zattera di salvataggio, dove trovar riparo (ma solo per chi è in grado di interpretare alla lettera il warning «si salvi chi può») dagli effetti devastanti dei roghi accesi dal volatile spettro che si aggira per le borse. Roghi virtuali, è vero, ma non meno distruttivi di quelli appiccati a suo tempo dall´incauto apprendista stregone fra´ Savonarola.
Tre binomi inscindibili che però generano, paradossalmente, altrettante antinomie. Perché è vero che per realizzare le sue imprese l´arte ha bisogno di denaro e che spesso si è specchiata nell´indistruttibilità e nel fulgore metafisico dell´oro, crogiolandosi all´ombra del potere di chi lo accumulava nei propri forzieri. È altrettanto vero, però, che a cominciare dal Rinascimento l´arte, per affermare se stessa e il proprio intrinseco valore, ha fatto volentieri a meno dell´oro, simulandone ingegnosamente il fulgore e, soprattutto, sostituendo la «divina virtù» dei suoi più alti interpreti alla pretesa eternità del vile metallo. Contrapponendo all´arte del potere il potere dell´arte. Ovvero, se si preferisce uscire dal gioco retorico delle formule specularmente simmetriche, contrapponendo all´inesorabile caducità dei potenti, il proprio, inestinguibile, potere di fascinazione. Un potere sempre diverso, ma sempre rinnovato e operante: sempre «attuale».
Di questo intrigante, inesauribile tema, tratta l´insolita e intelligente mostra Denaro e Bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, che terrà aperti i battenti fino al 22 gennaio 2012, proprio in quel Palazzo Strozzi che del connubio tra denaro e bellezza è uno dei prodotti più alti ed eloquenti. Un tema trattato da un´angolazione molto particolare, ma che va alla radice del rapporto tra arte e denaro: quella che ci parla della Firenze dei mercanti-banchieri e del fiorino come moneta di riferimento del commercio europeo, della Firenze dei Medici, di Lorenzo il Magnifico, del Botticelli e del Savonarola. Un approccio che ne descrive francamente connubi e conflitti, convergenze e contraddizioni, accostando decine di capolavori convenuti per l´occasione da musei vicini e lontani a stropicciate lettere di cambio, bilance di precisione, lucchetti, forzieri, partite doppie, borse bisunte. Dichiaratamente dialettico risulta, d´altra parte, anche l´approccio curatoriale, che intreccia le voci, talora in sintonia tal altra dissonanti, di due curatori dalla diversa sensibilità e specializzazione: la storica dell´arte Ludovica Sebregondi, esperta di arte religiosa tre-quattrocentesca e d´iconografia savonaroliana, e Tim Parks, noto scrittore e traduttore inglese, fresco autore di un bel libro, La Fortuna dei Medici, che declina questo tema proprio in chiave rinascimental-fiorentina, sottolineando come proprio il groviglio di tensioni generate dai due poli della diade arte/denaro sia all´origine dell´eccezionale fecondità artistica di quell´irripetibile «età dell´oro».
La mostra è scandita in otto sezioni e il visitatore, attraversandola, è sottoposto a una pioggia di stimoli e suggestioni. Nella prima, dedicata alla nascita del sistema bancario fiorentino come grande rete del commercio europeo, vedrà brillare il fiorino, fulgida moneta d´oro massiccio non più grande di 5 centesimi di euro, ma di valore tale da essere usato solo dai ceti abbienti; potrà inoltre apprendere il corrispettivo in merce e servizi di fiorini e «piccioli», e ammirare la gigantesca pala a fondo oro, commissionata nel 1372 dalla Magistratura fiorentina della Zecca. Le tensioni sono protagoniste nelle sezioni dedicate all´Arte del cambio, alle Leggi suntuarie e all´usura. La Chiesa condanna l´usuraio, perché lucra speculando sull´intervallo di tempo tra prestito e rimborso, mentre del tempo può disporre solo Dio. Ma lo scambio delle merci impone una circolazione di ricchezza, anche virtuale, che fa nascere e prosperare il sistema bancario. Come uscire dall´impasse? Come distinguere tra usuraio e banchiere? I Francescani, per aiutare chi era in difficoltà, istituirono i Monti di Pietà, ma l´odore di zolfo continuava ad aleggiare intorno ai banchi di cambio, come dimostra la quieta coppia di banchieri, marito e moglie, che pesa le monete in un celebre dipinto di Quentin Metsys, trasformata nei quadri di Marinus van Reymerswaele, un calvinista radicale che partecipò in Olanda anche a spedizioni iconoclaste nelle chiese, nell´immagine luciferina di una coppia di rapaci cambiavalute dalle grinfie adunche.
Ma un espediente si trovò e fu decisivo nel trasformare il banchiere da usuraio in mecenate: investire in arte parte del guadagno. Nacque così, dalla cappella degli Scrovegni in poi, passando per le imprese artistiche sponsorizzate dai Bardi, dai Peruzzi, dagli Strozzi, dai Medici e da tanti altri «Signori del denaro», il felice scambio tra profitto e salvezza dell´anima. Ad maiorem dei gloriam, certo, ma lucrando anche a spese dell´arte un interesse in termini di potenziamento della propria immagine terrena e un fiducioso lasciapassare per la salvezza eterna.
All´inizio del ´500, Agostino Chigi, il più «gran mercante della Cristianità», volle esplicitarlo senza troppi peli sulla lingua proprio nel contratto con cui acquistava una cappella funebre per sé e i suoi nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo, affidando il compito di renderla artisticamente immortale al «divino» Raffaello. Traduco dal latino: «Per provvedere alla propria salvezza e desiderando ardentemente scambiare, con felice commercio, i beni terreni in celesti e quelli transitori in eterni». Quanta schietta concretezza di propositi in questo «felice commercio», che offre in pegno arte e denaro in quantità adeguate per assicurarsi una posto d´onore in Paradiso!
La Repubblica 19.09.11