Un attraversamento pedonale con le strisce zebrate. La banchina di una metropolitana in un’ora di punta. Luoghi dall’apparenza neutra, persino inoffensiva. Se non fosse che in questi ultimi due giorni sono diventati teatro di una violenza bieca, assurda.
A Milano un taxista ha inavvertitamente travolto un cane libero da guinzaglio, a Roma una giovane donna ha battibeccato con un ragazzo per una precedenza in coda, come capita infinite volte. Entrambi sono finiti in coma, con grave trauma cranico. E di fronte a casi del genere non ci si può esimere da una domanda tanto banale quanto imperativa, pur sapendo che la risposta sarà necessariamente ambigua, parziale. Che non ci aiuterà a capire. E tuttavia il «perché è successo?», il «come è potuto accadere?» non possono non essere un tormento, per tutti noi.
Il caso più recente, quello al capolinea Anagnina della metropolitana capitolina, è terribile proprio perché scatenato da una circostanza talmente comune che non facciamo alcuna fatica a ricostruire la scena iniziale. Ne siamo stati protagonisti tante volte, da una parte o dall’altra: una fila di persone in coda davanti a uno sportello, una rivendicazione di precedenza, il diverbio che ne nasce con l’inevitabile coinvolgimento di qualcun altro in attesa. Qualche insulto e qualche brontolio che risuonano nel trambusto mattutino. Di lì in poi, l’esito agghiacciante e imprevedibile. Altre parole, spintoni, e un pugno in faccia. L’infermiera trentaduenne cade a terra immobile, l’aggressore ventenne se ne va.
E poi, passa un bel po’ di tempo prima che qualcuno si renda conto della gravità di quella scena. Intanto, la gente passa, sale e scende dalla metro, nessuno pensa di fermarsi accanto a quel corpo esanime, allungato per terra. Così come sulla strada milanese una domenica mattina, anche questa scena si consuma in un luogo di passaggio, di transito. Un non-luogo che non appartiene a nessuno e dove teoricamente nessuno ha nulla da rivendicare, un territorio neutrale dove siamo tutti di passaggio e che dovrebbe essere incapace di generare conflitti. E invece, difficile dire se quanto è successo sia una scena più adatta a un film dell’orrore o a una tragedia dell’assurdo, quel che è certo è che appartiene alla realtà di una mattina romana come tutte le altre. Al di là del danno subito fisicamente dalle vittime, questa è certamente la cosa più preoccupante di tutte: il fatto che sia successo per davvero, e non in una finzione cinematografica.
Le due vicende, quella milanese sulle strisce pedonali e quella romana allo sportello della metropolitana, sono al di fuori di ogni possibile «catalogazione» razionale o emotiva. Per questo, le domande sul perché, sul come sia potuta succedere una cosa del genere, non trovano un azzardo di risposta. C’è troppa violenza per potere tirare qualunque somma. C’è una violenza gratuita, come la violenza è sempre perché in fondo se ne potrebbe sempre fare a meno. Ma c’è anche e soprattutto una violenza imprevedibile, capace di scatenarsi con una facilità spropositata, come se fosse stata lì in agguato ad aspettare il momento propizio, la scusa più blanda per venire fuori e far finire in coma due persone.
Anzi, di violenze ce ne sono due. Certo differenti per grado e dato di colpevolezza, eppure in qualche modo parallele. Ci sono la rabbia e i pugni da una parte, e il distacco dall’altra. In entrambi i casi, tanto a Milano quanto a Roma, è passato del tempo prima che il corpo al suolo venisse degnato d’attenzione. In quel terribile intervallo, è stato come se nulla fosse successo. O peggio ancora, come se quel che era appena successo non riguardasse nessuno di noi. Quanto è durato, quel tempo sospeso? Una manciata di secondi? Qualche minuto? Certamente, un’eternità di indifferenza.
La Stampa 13.10.10