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"Il mito di Marcello uomo di mafia con la reputazione del manager colto", di Enrico Deaglio

MI guardò in cagnesco. Poi si alzò, inforcò i Rayban neri, si abbottonò il doppiopetto rigato marrone e, giunto davanti al mio tavolo, si tolse gli occhiali con un ampio gesto e fece, a voce alta: “Eccomi, sono la sua vittima. Ma se mi conoscesse meglio, non scriverebbe quello che scrive”. Mise gli occhiali nel taschino, con una stanghetta fuori: “Comunque, complimenti; lei scrive molto bene” e se ne uscì, teatralmente. II brusio del locale era improvvisamente cessato, il cameriere era sbiancato, come quando nel saloon entra lo Straniero e mormora: “Dite al Condor che lo sto cercando”.
Non c’è dubbio che avesse una reputazione, Marcello; e non solo di raffinato bibliofilo. Era una caricatura, ma nello stesso tempo faceva un po’ paura. E infatti, non aveva avversari politici: io perlomeno non ne ricordo nessuno. Ora che è stato definitivamente condannato (“fin dagli anni Settanta fu l’ambasciatore di Cosa Nostra a Milano”) gli italiani saranno costretti probabilmente a farsi delle domande scomode. Tipo: ma come è stato possibile? La mafia nel consiglio di amministrazione della Fininvest? La mafia
dietro la costruzione di Forza Italia?
In effetti la sua storia, anzi la sua doppia storia, fa paura. Giovane palermitano al servizio della mafia, viene assegnato nel 1972 a curarne gli affari sulla piazza milanese. Cosa Nostra si attacca al palazzinaro più importante dell’epoca, lo minaccia di morte, ma Dell’Utri si offre di risolvergli il problema. Diventa il suo braccio destro, trasforma la villa di Arcore in una foresteria di latitanti (non c’è boss che, all’arrivo a Milano, non vada ad omaggiarlo), è molto attivo nelle pubbliche relazioni. Secondo la Criminalpol, che nel 1981 stila un famoso rapporto, i Dell’Utri (Marcello e il fratello gemello Alberto) sono all’apice delle operazioni mafiose sotto la Madonnina. Riciclano, investono, sono coinvolti in bancarotte colossali come quella della Bresciano costruzioni o della Venchi Unica, in spericolate operazioni immobiliari, addirittura in contatto con una banda di sequestratori sardi. Secondo Falcone, il livello di investimento della mafia siciliana sulla piazza di Milano è di proporzioni imponenti e Vittorio Mangano è uno dei personaggi di spicco. Secondo Borsellino, che ci tiene a farlo sapere a due giornalisti francesi (gli unici che appaiono molto informati) Dell’Utri e Mangano sono i terminali milanesi della filiera finanziaria mafiosa palermitana. Ma tutte queste cose, non si capisce perché, non diventano pubbliche. Eravamo disattenti.
Dell’Utri Marcello compare pubblicamente sulla scena all’inizio degli anni Novanta come l’amministratore delegato di Publitalia (“il carismatico manager capace di infondere motivazione ed energia ad una falange di venditori di spot”). Ma evidentemente non è un buon manager; tra corruzione, falsi in bilancio e malversazioni, Publitalia nel 1993 è sull’orlo della bancarotta e deve essere messa in amministrazione controllata. Berlusconi, che pure ha fama di imprenditore attento e capace, non solo non lo manda via, ma anzi gli affida la sua carriera politica. E Dell’Utri vince le elezioni! Con un particolare inquietante. Dieci giorni prima del voto del 1994, quando ancora Dell’Utri non era un personaggio pubblico, ma Berlusconi andava dicendo che i magistrati volevano fare un “golpe bianco” e impedirgli la vittoria, il presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante si lasciò scappare che Dell’Utri sarebbe stato arrestato, dalla procura di Catania, per traffico di armi e droga. Ma non successe, e Violante dovette dimettersi. Dell’indagine di cui parlava Violante, non si seppe più niente. Così come delle altre, sulla mafia a Milano, anche perché i due magistrati che le seguivano, erano saltati in aria.
E così cominciò la leggenda di Marcello. Mafioso? Addirittura coinvolto nelle stragi? Ma quando mai, è un intellettuale che ama i libri. È un cattolico praticante. Certo, ha conosciuto dei ragazzi poveri a Palermo, ma solo perché faceva l’allenatore di una squadra di calcio. È buono, non sa dire di no, e non si pente di aver aiutato Vittorio Mangano. Diventa senatore, poi deputato europeo, promuove la Biblioteca di via Senato, scicchissimo luogo di mostre, teatro ed eventi. Conferenzieri ed attori fanno la fila per esibirsi di fronte a lui. Viene nominato direttore artistico del Teatro Lirico. Fonda i “circoli del buon governo”, per educare i giovani a diventare classe dirigente, anima giornali raffinati, controlla saggiamente il mercato della pubblicità, viene intervistato come uno statista, si propone come mediatore di affari, controlla scrupolosamente che i candidati alle elezioni del suo partito siano persone intelligenti e oneste, scopre dei diari che dimostrano che Mussolini era un buono e vero patriota (“ebbene sì”, dichiarò a Bruno Vespa, “la storia andrà riscritta”; “sono falsi ma pubblichiamoli,” disse la Bompiani), scopre un capitolo inedito del Petrolio di Pasolini, accetta con la pazienza di Giobbe il calvario cui i giudici comunisti lo sottopongono, si paragona a Socrate incarcerato e condannato e quando qualcuno, timidamente, gli chiede che cos’è, secondo lui, la mafia, risponde secco, permettendosi il gergo triviale: “Tutte minchiate, la mafia non esiste”. E se lo dice un intellettuale raffinato, come non credergli?
E come si poteva davvero pensare che la mafia siciliana prendesse il potere a Milano, la capitale morale, con la sua borghesia illuminata, il suo mondo finanziario di antica data, il controllo di un’opinione pubblica agguerrita? La vicenda di Marcello Dell’Utri ha davvero dei risvolti grotteschi. Nel film A qualcuno piace caldo , il boss “Ghette” convoca il clan a Miami sotto le insegne di un convegno degli “Amici dell’opera italiana”, qui abbiamo il martire della giustizia in un letto d’ospedale a Beirut che tiene sul comodino La divina commedia e I promessi sposi, e si affida al potere falangista perché allevi le sue pene. Manca solo Scajola ministro degli interni.
È lui che è un genio o siamo noi che siamo fessi? Quando un giorno il nipotino ci chiederà: “Nonno, ma com’è che l’Italia per vent’anni venne governata dalla mafia?”, ci toccherà rispondere: “Beh, non esageriamo. Le cose furono molto più complesse”.

La Repubblica 13.05.14

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