A quarant’anni di distanza i nodi della storia si sciolgono senza smettere di aggrovigliarsi. Per cui dinanzi all’anniversario del compromesso storico, la formula coniata da Enrico Berlinguer al termine di tre successivi articoli pubblicati su Rinascita tra il 23 settembre e il 12 ottobre con il titolo “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile”, l’irresistibile tentazione è di far partire il ricordo da come era ridotta l’automobile, enorme e sgraziatissima berlina della nomenklatura, dopo lo spaventoso incidente mentre portava il segretario del Pci all’aeroporto di Sofia.
Le foto si vedono in Sofia 1973: Berlinguer deve morire, di Giovanni Fasanella e Corrado Incerti (Fazi, 2005). Era il 3 ottobre, a missione conclusa, e in quel groviglio di vetri e lamiere rese informi da un camion militare, Berlinguer riportò diverse contusioni, ma volle ripartire lo stesso. Allora in diversi, anche molto vicini a lui, maturò il sospetto, reso noto da Emanuele Macaluso nel 1991, che i bulgari avessero tentato di fargli la pelle. Perché troppo “indipendente” dalla casa madre del comunismo.
Ma quel 3 ottobre né l’intransigente leader bulgaro Todor Zhivkov, né le varie correnti del Kgb sapevano ancora nulla del compromesso storico. Eppure, grazie proprio a quel misterioso incidente, una volta rientrato in Italia, il leader comunista si mise a riposo, anzi a letto, dove con calma, «rassegnato all’immobilità » come raccontò poi a Vittorio Gorresio, ebbe modo di finire la seconda puntata e di scrivere per intero la terza, nel cui ultimo capoverso è presente la fatidica espressione.
Dietro quelle due parolette c’era un mondo oggi del tutto sparito e in parte anche dimenticato, se non rimosso. Il golpe cileno, i colpi di Stato, l’imperialismo americano. Ma nel retroterra non era difficile avvertire la lezione “geniale” di Lenin, più volte richiamata nel testo. Poi la duttilità dottrinaria di Gramsci. Quindi la tradizione del realismo togliattiano alla luce dell’elaborazione di Franco Rodano secondo il quale la “rivoluzione” era da intendersi in Occidente come un processo interno allo sviluppo della democrazia. Anche in questo senso avere il 51 per cento, come Allende, non serviva più, o non serviva ancora.
C’era infine un’attenzione assai viva al mondo cattolico, alle gerarchie ecclesiastiche, al Vaticano, alla Dc, i cui continui sommovimenti vedevano in quello scorcio prevalere una composita maggioranza di centrosinistra. Ma soprattutto c’era Aldo Moro, che in estate a proposito della “difficile democrazia” italiana con linguaggio ispiratissimo aveva annunciato: «Non noi, con la nostra volontà, ma la storia stessa, l’evoluzione e i movimenti dello spirito umano potranno forse, in tempi imprevedibili, modificare questa situazione».
Per la cronaca: c’erano in quel momento anche il colera, Amarcord,
rivolte nelle carceri e Jesus Christ superstar.
Tonino Tatò, che aveva il senso della solennità e di Berlinguer era l’angelo custode, ha poi descritto nei dettagli il momento preciso in cui il compromesso storico venne al mondo, durante la convalescenza: «Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pantaloni di flanella, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra (allora fumava le Turmac rosse), occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, biro con inchiostro nero nella mano destra, davanti a parecchi fogli».
Ha quasi finito, ma l’ultima frase è tanto decisiva quanto incompiuta. Tatò chiede il foglio e legge: «La gravità dei problemi, le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo un…». È qui che Berlinguer si è fermato. Ma la parola che gli ronza in testa è sempre quella: “Compromesso”. Solo, occorre affiancarla con un attributo che le assegni «un senso di durata strategica». Inutile rimarcare che a quei tempi le parole, in politica, avevano molto più peso di oggi.
Quando il compromesso storico venne fuori, non fu accolto con benevolenza dai più attenti osservatori. «Formula infelice», decretò
Gorresio; «vaga e rozza », scrisse Enzo Forcella. In un incontro con gli studenti lo stesso Berlinguer riconobbe che si trattava di un’espressione provocatoria usata anche per «destare attenzione». Questo in effetti accadde. Poco dopo, incontrando a Ravenna gli operai dell’Anic, gli disse uno di loro che sull’autobus la mattina non si parlava più di calcio, ma di compromesso storico. Tutto lascia pensare che Berlinguer abbia risposto con uno dei suoi indimenticabili sorrisi. Per cui: «Io non credo che sia proprio così, credo che si parli ancora e anche di calcio», d’altra parte non c’era niente di male e anche lui — ma in verità disse “anche noi” e non era plurale maiestatis,
ma il più profondo sintomo d’identificazione — parlava di calcio.
A pensarci bene, dopo tanti anni, il compromesso storico teneva insieme due termini in contrasto fra loro. Nella retorica questa figura ha il nome di ossimoro. Ma non solo per questo dispiacque, oltre che al Psi, anche nello stesso Pci. Giorgione Amendola, che guardava ai socialisti, e Pietro Ingrao, che puntava sulla spaccatura della Dc, rimasero perplessi. Luigi Longo, il presidente del partito, disse chiaro — e suonò inaudito — che la formula non gli piaceva «e non so nemmeno
se rende bene l’idea». Avrebbe preferito, con Gramsci, «blocco storico» — ma a quel punto era un’altra cosa. Sia come sia, Maurizio Ferrara diede poi alle stampe, in sonetti romaneschi, Er compromesso rivoluzzionario.
Più tardi il Bagaglino mise in scena I compromessi sposi.
Ma quando intorno al 1975 partì la solidarietà nazionale, dal terreno coniugale la faccenda scivolò sul piano orgiastico con “l’ammucchiata”.
Rilette oggi, le “Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile” colpiscono per l’intuizione di un leader che guardava molto in là, ma forse proprio per questo dovettero suscitare parecchi timori, anche molto lontano dall’Italia. Nelle sue asciutte argomentazioni ideologiche il compromesso storico era una proposta politica ragionevole, però al tempo stesso una via di palingenesi. Si presentava come il massimo della continuità, ma insieme innescava una novità esplosiva. E soprattutto arrivava troppo presto, eppure forse era già troppo tardi. A riprova che non solo la politica, ma anche la storia, con i suoi nodi e garbugli, e in fondo la vita stessa vivono, se non di ossimori, di cose molto complicate e solo in apparenza inconciliabili. L’orrido “inciucio” era comunque molto di là da venire.
La Repubblica 23.09.13