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Riflessioni a margine de “La scuola diversa”, di Manuela Ghizzoni

Domenica pomeriggio a Buk, il festival della piccola e media editoria che si svolge a Modena (http://www.bukmodena.it/wordpress/category/buk-2013/ ), avrò l’onore di presentare l’ultima fatica letteraria di Daniela Tazzioli, una bravissima narratrice, nonché amica e persona che stimo.
Non so scrivere recensioni, pertanto quanto seguirà sono solo alcune riflessioni sparse suscitate dalla lettura de “La scuola diversa”, di Infinito edizioni, che spero possiate condividere (e vi inducano a comprare il libro di Infinito edizioni, anche perché per un fraintendimento diffuso a mezzo stampa dell’invito alla presentazione, risulto essere coautrice del volume e Daniela mi ha assicurato che condividerà con me i lauti guadagni dei diritti d’autore…).
Daniela è modenese fino all’osso (o nel profondo dell’anima, se preferite), ma è anche cittadina svizzera. Da alcuni anni vive a Basilea e nei confronti della Confederazione Elvetica ha maturato un odio e amore che a mio avviso non risolverà più: aspira a tornare a “casa” ma credo che non possa più vivere lontano dalle certezze e dalle rassicuranti regole (comportamentali e etiche) della società calvinista, non fosse altro per metterle in discussione e umanizzarle!
Per conto dei nostri Ministeri dell’Istruzione (un tempo pubblica) e degli Esteri, Daniela insegna cultura e lingua italiana ad adolescenti di Basilea nati da famiglie di nostri concittadini emigrati: si potrebbe dire che insegna loro la “lingua madre”. Impresa non banale. E non solo perché è difficile che ’sti ragazzini – che nei primi anni di vita apprendono il dialetto italico dei genitori, poi imparano all’asilo il dialetto svizzero germanico e infine studiano il tedesco a scuola – possano considerare l’italiano la loro lingua madre (semmai è la lingua dei loro genitori e nonni), ma anche perché da poco più di un anno è stato sferrato un attacco nei confronti dell’ormai sparuto contingente di insegnanti italiani all’estero da parte del Governo (con il sostegno – ahimè – di due parlamentari del PD: sostegno che ho contrastato perché la nostra istruzione all’estero è l’estremo propugnacolo dell’investimento pubblico nella cultura italiana e pertanto è un valore da difendere).
Daniela parla di questa vicenda, dipanandola nel corso della narrazione, dedicata alla lirica comparazione tra il “perfetto”, “selettivo”, “competitivo” ed “escludente” sistema scolastico svizzero (o di Basilea Città, visto che i Cantoni hanno differenti legislazioni scolastiche) e quello italiano. E a prevalere, per Daniela, è il sistema nostrano: perché è vero che la nostra scuola è “sgarrupata”, e lo sarà sempre di più se non ci convinceremo, come Paese, che lì dobbiamo investire perché lì sta il nostro futuro, ma è altrettanto vero che, pur tra enormi difficoltà, nelle aule italiane educhiamo alla cittadinanza, includiamo i ragazzi con bisogni educativi speciali, indirizziamo i talenti – anche artistici – alla loro valorizzazione, diamo pari opportunità a chi ha avuto in sorte condizioni sociali di nascita svantaggiate. O, quantomeno, chi lavora nella scuola italiana si impegna per agire in questa direzione anche se è sempre più difficile: mancano le risorse, ma manca soprattutto la fiducia nella scuola italiana da parte di chi ha avuto responsabilità di Governo e del Paese. E allora, tanto per attingere alla cronaca di questi ultimi giorni, si diffonde senza colpo ferire la pratica dei test di ingresso anche per la scuola dell’obbligo (https://preview.critara.com/manughihtml/?p=41190 ): la giustificazione è che le richieste sono troppe e le scuole non riescono ad accettarle tutte, ma dietro di essa si cela la selezione delle “eccellenze”, che smentisce la funzione di motore sociale dell’istruzione. E dovremmo tutti occuparcene e preoccuparcene.
Il libro di Daniela dovrebbero leggerlo i genitori italiani in lotta con i prof dei propri figli per capire cosa significa fare il docente, i ministri che dalla Moratti in poi si sono succeduti al dicastero dell’Istruzione (pubblica) e i loro colleghi al Ministero del Tesoro, gli aspiranti ministri (e sono tanti…), i commentatori dei quotidiani che discettano di istruzione senza consapevolezza alcuna (dato che per parlare di scuola non è sufficiente essere stati, un tempo, alunni). Capirebbero, forse, che la scuola non deve limitarsi ad insegnare a far di conto, a leggere e a scrivere e finalizzare queste competenze esclusivamente all’esercizio di un lavoro, perché, come ha scritto Stefano Bartezzaghi non più tardi di lunedì, le materie scolastiche non sono “strumenti utilitari, un’attrezzeria tecnica che a scuola ci viene consegnata perché «ci servirà» nella vita… La verità è che la scuola non è né utile né inutile: è a-utile, un’industria no-profit (la pubblica) di trasmissione del sapere in cui comunità di due generazioni diverse si scambiano insegnamenti e aggiornamenti su cosa implichi e cosa significhi essere italiani oggi” (il bell’articolo di Bartezzaghi lo trovate qui https://preview.critara.com/manughihtml/?p=41181 leggetelo, per favore). Perché, aggiungo, la scuola italiana è (o dovrebbe essere, poiché si fa di tutto per impedirglielo) quell’organo costituzionale – Calamandrei docet – che “rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Detto questo, però, credo che per Daniela il confronto dei due sistemi scolastici sia stato anche un pretesto per raccontare le cose che rendono la sua e la nostra, più o meno consapevolmente, vita sopportabile (la letteratura, la conoscenza, il pensiero) e per gridare al mondo che senza giustizia non abbiamo speranza. Questi sono i passaggi – nei quali la narrazione diventa lirica o denuncia sociale – che io ho amato di più e che mi hanno fatto venire voglia di rileggere Gita al Faro di Virginia Woolf per provare a cogliere il senso della visione; che mi hanno fatto sentire meschina per la trascuratezza con la quale ho vissuto, in questi anni, l’ardente bellezza della Città Eterna (del resto, ben prima dell’arrivo del M5S, mi sono dedicata solo all’attività parlamentare senza alcuna distrazione: chi mi conosce lo sa…); così come mi hanno fatto provare la struggente nostalgia dell’età dell’innocenza passata sui banchi di scuola e che mi hanno aperto gli occhi e il cuore sui “frammenti di bellezza”. E sono questi stessi passaggi che mi hanno rinfrancato sul senso di giustizia che ha improntato alcune battaglie che ho intrapreso nell’ultimo anno della legislatura che si è appena chiusa. Battaglie perse, per lo più (solo quella contro l’aumento a 24 ore di lezione frontale per i docenti è stata vinta, ma il resto son macerie…), ma che andavano affrontate e che hanno dato un senso alla mia presenza in Parlamento.

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